David Thomas e la visione terminale dell’America | Rolling Stone Italia
Cantare l’irrilevanza

David Thomas e la visione terminale dell’America

Coi Pere Ubu ha scritto la colonna sonora di un Paese al collasso. Ogni loro canzone era un atto di resistenza contro l’entertainment, era rock da malati cronici. Un profilo dell’artista scomparso due giorni fa

David Thomas e la visione terminale dell’America

David Thomas dei Pere Ubu

Foto: K Boon

David Thomas non è stato solo un cantante o il leader di una delle band più interessanti e cruciali di quella stagione, quel sentimento, quello “spirito del tempo” che più o meno a ragione chiamiamo post punk. È stato una trasmittente rotta che intercettava il rumore di fondo di un’America al collasso. Il frontman dei Pere Ubu, scomparso l’altro ieri all’età di 71 anni, ha attraversato la musica come un’entità anomala, impossibile da classificare: troppo colto per il punk, troppo disturbato per la new wave, troppo visionario per il rock. Il suo canto – una specie di lamentazione robotica, un urlo d’angoscia amplificato da tubi arrugginiti – era l’eco distorta di una civiltà industriale che non voleva arrendersi all’oblio ma che aveva già perso.

Thomas era Cleveland. Non quella degli sport o del Midwest bonario, ma Cleveland come rovina postindustriale, come scenario da fantascienza low budget. Una città-macchina che ha perso l’olio, ma continua a tossire segnali. Nella Cleveland dei Pere Ubu non c’è alcuna mitologia da working class hero, nessuna nostalgia springsteeniana. Ci sono le strade vuote, i cartelloni pubblicitari semiscoloriti, il neon rotto fuori da un diner alle 3 del mattino. È una Cleveland lynchiana: una Twin Peaks senza montagna, solo picchi di ansia e loop radiofonici.

Quando i Pere Ubu pubblicano il loro capolavoro, The Modern Dance, nel 1978, non stanno semplicemente suonando musica alternativa. Stanno costruendo una mitologia anti-americana. Quel disco, come i successivi Dub Housing, New Picnic Time e il resto della loro produzione fine anni ’70, è una sorta di colonna sonora per un film che non esiste: una distopia americana girata tra capannoni abbandonati, luna park guasti e sobborghi implosi. Thomas, con la sua voce da mutante e il suo corpo da poeta ferito, trasforma la decadenza in segnale. Non c’è nostalgia, né ironia – tratto distintivo del postmoderno. Solo sopravvivenza.

Per questo i Pere Ubu non hanno mai fatto parte davvero di una scena. Non erano newyorkesi, non erano londinesi, non erano nemmeno esattamente punk. Erano una banda di scienziati sonori: gente cresciuta ascoltando il jazz cosmico di Sun Ra, i radiodrammi della radio pubblica americana, i field recordings delle fabbriche. Il loro era punk dell’era nucleare. Musica per quando la tecnologia collassa e lascia spazio ai fantasmi. Una musica che sembra uscita da un televisore dimenticato acceso in una casa vuota.

Lo stesso nome Pere Ubu denota la provenienza da un altrove. La citazione è di Alfred Jarry, autore dell’Ubu Roi, testo fondamentale del teatro dell’assurdo del primo Novecento: un’opera assurda, anarchica, proto-dadaista. Tutta la carriera di David Thomas può essere letta come una trasposizione americana del teatro dell’assurdo. Ma invece dei re ridicoli e delle farse parigine, qui ci sono automobili arrugginite, centri commerciali vuoti, la paranoia da Guerra fredda, l’alienazione suburbana.

Thomas si muoveva in questo universo come un testimone delirante. Nei suoi testi si parla di trasmissioni interrotte, di ombre che si allungano sulle strade deserte, di periferie che sembrano crateri lunari. È una poetica del disfacimento: della distorsione come forma di verità. Un mondo dove il male non arriva da fuori, ma si insinua sotto le piastrelle della cucina. Come nei film di David Lynch, non c’è bisogno di mostri: basta l’odore della plastica bruciata, il suono metallico di una forchetta che cade, una luce al neon che sfarfalla troppo a lungo.

Thomas era uno di quei cantori del male silenzioso che si annida nella provincia americana. Come Harry Dean Stanton in Paris, Texas o l’uomo misterioso di Lost Highway, sembrava sempre provenire da un’altra dimensione, ma sapeva tutto di quella in cui si trovava. Era uno spettro del sistema, una figura da noir postmoderno: trench mentale, cicatrici nella voce, una mappa interiore disegnata coi rumori.

Dal vivo coi Pere Ubu nel 1978. Foto: Marcus Portee

Una delle grandi intuizioni di David Thomas è stata quella di non fidarsi della forma canzone. Dove la struttura pop tende a rassicurare, a chiudere il cerchio, i Pere Ubu aprono fratture, accumulano rumori, destrutturano. L’equivalente sonoro di una casa smantellata pezzo per pezzo, in diretta. I synth analogici si comportano come sirene rotte, le chitarre sembrano trapanare l’asfalto. È rock? Sì, ma solo se il rock può essere esorcismo.

Questo superamento della forma, arrivando dalla sfiducia, diventa politico. È l’opposto della radiofonia. È una dichiarazione d’indipendenza sonora: fare musica che non serve a niente, se non a mappare il vuoto. Se Springsteen canta per chi va a lavorare, Thomas canta per chi ha perso il lavoro da dieci anni e vaga tra i parcheggi dei mall chiusi. Ogni pezzo è un atto di resistenza contro il bel canto, contro l’entertainment. È musica per chi vuole ascoltare i demoni nei cavi.

L’influenza di Thomas è profonda anche se invisibile. Agisce nei sotterranei, nei margini. Anche lei una “strada blu” americana — quelle strade che per William Least Heat-Moon rappresentano le autentiche vene statunitensi fuori dalle cartografie ufficiali — che emerge qui e là. Sta nei margini. Nei Sonic Youth, nei Pixies, nei Radiohead più disturbati. Ma anche in certi momenti dei Liars, nei Suicide, in certi beat scomposti di Oneohtrix Point Never. Sta nei gruppi che pensano la musica come una forma di geografia psichica. È l’idea che si possa fare rock senza groove, senza pose, senza bellezza. Un rock da malati cronici. Da scienziati impazziti. Da americani che non ce l’hanno fatta.

Nel suo lavoro si intravede una forma primitiva di hauntology ante litteram. C’è il senso di una modernità che si sta sgretolando sotto i piedi. Un eterno presente in frantumi. I dischi dei Pere Ubu non raccontano un tempo, ma il suo sfasamento.

David Thomas era, in fondo, un cronista del disfacimento del reale. Un reporter mandato a raccontare un mondo che stava finendo prima ancora di iniziare. Un viaggiatore nel tempo bloccato tra due epoche – quella del grande sogno americano e quella della sua evaporazione. Il suo corpo, spesso fragile, ingombrante, sofferente, era parte della sua poetica. Una specie di antenna umana, capace di captare l’irrilevanza.

L’opera di Thomas non ha mai cercato di essere attuale. Ha solo cercato di registrare il rumore dell’entropia. Come un vecchio tecnico audio rimasto chiuso in una stazione radio sotterranea, convinto che là fuori ci sia ancora qualcuno in ascolto, trasmettendo segnali da un futuro che non è mai arrivato.

Altre notizie su:  David Thomas Pere Ubu