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Dentro ‘Purple Rain’, la rivoluzione musicale di Prince

Il 25 giugno 1984 usciva l’album che ha trasformato il genio di Minneapolis in una leggenda e ha cambiato almeno un po’ il corso della black music. Ecco il racconto dei protagonisti dell’epoca

Foto: Jim Steinfeldt/Michael Ochs Archives/Getty Images

Non aveva alcun senso. Prince aveva centrato un paio di hit e non aveva un gran seguito mainstream al di là dei ragazzi che guardavano MTV, nata peraltro solo un paio d’anni prima. Eppure voleva diventare il protagonista d’un film ispirato liberamente alla sua vita e basato sugli appunti che prendeva su un quaderno viola in viaggio sul tour bus. E voleva che il suo nuovo album fosse la colonna sonora della pellicola.

C’era un’altra cosa che desiderava: registrare un pugno di canzoni, tra cui alcune che non aveva mai fatto dal vivo. E voleva farlo sul palco. Quella sera.

È il 3 agosto 1983 e Prince e i Revolution sono tornati a Minneapolis dopo il tour di 1999 che li ha portati in giro per l’America a suonare di fronte a platee sempre più numerose, alimentando l’ambizione dell’artista. Tornato a casa, si esibisce nel club a lui famigliare First Avenue per la prima volta in un anno e passa. Decide all’ultimo minuto di affittare uno studio mobile per registrare la serata.

«Il locale era strapieno», ricorda il tour manager Alan Leeds. «Talmente pieno che Steve McClellen, che gestiva il First Avenue, temeva che arrivassero i vigili del fuoco a chiudere tutto». È il primo concerto in cui nei Revolution suona la nuova giovanissima chitarrista Wendy Melvoin. Ed è anche la prima volta in cui si sente la canzone che avrebbe definito il capitolo successivo della carriera di Prince e in un certo senso anche la sua vita.

Incredibilmente, quella prima esecuzione di Purple Rain (con qualche edit e l’aggiunta degli archi) è quella finita sia sul disco che nel film, che esce esattamente un anno dopo, quando l’album è già un successo. A quel punto, l’ascesa globale di Prince è completa.

«Se lo ascolti oggi, Purple Rain sembra un album dei Beatles», dice il tastierista Matt Fink. «Ogni pezzo è geniale nella sua unicità ed è anche tecnicamente più avanzato dei dischi precedenti che in certo senso lo hanno portato a questo. Un nuovo picco».

Da quel momento, per milioni di ascoltatori Prince diventa quello di Purple Rain. L’album vende 13 milioni di copie, il triplo del precedente 1999. Quando esce il film, nel luglio del 1984, Prince è l’unico artista ad avere contemporaneamente un album, un singolo e un film al numero uno delle rispettive classifiche americane. È un trionfo senza precedenti ed è frutto dalla sua visione artistica, dalla sua determinazione e da un’ambizione senza limiti, il punto di arrivo di una strategia che nemmeno le persone più vicine a lui potevano prevedere. «Sapevo come sarebbe stato il disco», ha detto Prince, «e per tutto il 1984 ho lavorato per metterlo al mondo».

L’anno prima, il successo di Little Red Corvette gli ha aperto le porte del mercato pop. Come dice il chitarrista Dez Dickerson, il pubblico del tour di 1999 era formato da «una marea di facce sempre più bianche». Per allargare il pubblico, Prince ha riconfigurato il suono, lo stile, la band. Sapeva di poter conquistare anche gli appassionati di rock presentandosi non più come il genietto solitario dello studio di registrazione, ma come grande chitarrista alla guida di una vera band.

È fondamentale anche la sostituzione di Dickerson con Wendy Melvoin, amica d’infanzia della tastierista Lisa Coleman. E così i Revolution, da gruppo guidato da tre uomini neri, diventano un mix di generi e razze, manifestazione visiva del progetto di mescolare i Fleetwood Mac a Sly and the Family Stone. «Venivamo da mondi diversi, ma eravamo capaci di unirci convergendo verso un centro creativo, e la gente lo sentiva» dice Lisa Coleman.

La musica di Purple Rain viene concepita fin dall’inizio in parallelo al film. Nessuno però sa cos’ha in mente Prince e i suoi manager non sono nemmeno sicuri di riuscire a realizzare il progetto. Alla fine trovano un regista (Albert Magnoli, che non ha mai diretto prima un film) e i lavori hanno inizio. Al primo incontro, il musicista presenta al regista decine di nuove canzoni da prendere in considerazione. Man mano che la storia viene messa a fuoco, Prince capisce che i pezzi devono essere legati alla narrazione componendo una specie di lungo videoclip. «Riuscire a far entrare tutte le canzoni nel film è stato un colpo di genio», dice Fink.

Dietro a Purple Rain c’è una storia che ha anche fare più con la professione di musicista che con la vita personale di Prince. Mentre era in giro scarabocchiando sul suo taccuino viola, si ritrovava spesso a vedere i concerti nei palazzetti di un altro musicista del Midwest, Bob Seger. Voleva scoprire il segreto del suo successo che stava, come dice Fink riportando le parole di Prince, soprattutto nelle ballatone come We’ve Got Tonight e Turn the Page. S’era quindi messo in testa di scrivere il proprio inno, che ha cominciato ad abbozzare con la band nel dicembre 1982.

Il sogno di conquistare un nuovo pubblico è talmente grande che all’inizio manda la musica a Stevie Nicks (con cui ha collaborato suonando le tastiere in Stand Back) chiedendole di scrivere un testo. «Mi piacerebbe», risponde lei, «ma è un po’ troppo per me» (tempo dopo, quando teme d’avere esagerato e di aver scritto un pezzo troppo simile a Faithfully dei Journey, Prince chiama il tastierista Jonathan Cain e gli fa sentire Purple Rain al telefono per essere sicuro che il gruppo non gli farà causa).

Quando il pubblico del First Avenue considera troppo pop e non abbastanza funk le prime canzoni, Prince reagisce aggiungendo Darling Nikki, in cui dice che la protagonista “si masturba guardando delle riviste”, un verso diventato celebre perché spinge Tipper Gore a creare il Parents Music Resource Center.

La scaletta dell’album viene rivista più volte. Wednesday (cantata da Jill Jones) ed Electric Intercourse vengono aggiunte e poi eliminate. La composizione più elaborata, Computer Blue, dura 14 minuti, compresa una parte parlata che ricorda il monologo di Jim Morrison in The End e viene accorciata. Take Me With U, scritta per le Apollonia 6 (evoluzione della band femminile Vanity, rinominata come l’attrice protagonista del film) si trasforma in un duetto con Apollonia (la fonica Susan Rogers ricorda l’attrice e cantante di poca esperienza fare pratica intonando When I’m Sixty-Four dei Beatles). Al First Avenue viene fatta anche Let’s Go Crazy, ma Prince preferisce riregistrarla con la band in sala prove, tenendo l’assolo di chitarra devastante fatto dal vivo nel club.

Le riprese terminano nel dicembre del 1983, ma Prince continua a lavorare alla colonna sonora anche durante la fase di montaggio. Magnoli gli chiede una canzone per accompagnare una sequenza con un riassunto delle varie storyline e lui che gira per la città in moto. Il giorno dopo, Prince gli porta due pezzi, uno dei quali è When Doves Cry. Ha una parte di chitarra stridente, non c’è il basso, ha un testo criptico ma forte e non assomiglia a null’altro al mondo. È musica ipnotica e accattivante fino a creare dipendenza. «La prima volta che l’ho sentita, ho capito subito che avrebbe avuto successo, mi è bastato sentire gli accordi di pianoforte del ritornello», dice Alan Leeds.

La versione finale dell’album è semplicemente perfetta, dall’inizio alla fine, non c’è un solo secondo di troppo. Mette assieme in modo equilibrato tutti gli elementi del genio di Prince: pop, funk, rock, dance, sesso, umorismo, spiritualità. Ed è il progetto più collaborativo che il musicista abbia mai pubblicato, coi Revolution che contribuiscono in modo determinante a molte tracce.

A maggio, un paio di mesi dopo essere stato registrato, esce il primo singolo When Doves Cry. Quando arriva al numero uno della classifica americana è uscito anche l’album, che a sua volta va al primo posto, dove rimane sei mesi. Improvvisamente tutti vogliono sapere qualcosa di più del film, ma Prince si rifiuta di fare promozione, né concede interviste. Nel primo weekend in sala, a luglio, Purple Rain recupera subito i soldi spesi per girarlo. Alcune scene sembrano quasi amatoriali, altre sono decisamente misogine, ma c’è qualcosa di estremamente vero: non è un racconto fedele della vita di Prince, ma fotografa alcuni dei suoi tormenti e conflitti interiori più intimi, oltre a rappresentare benissimo lo spirito alternativo e multirazziale della scena di Minneapolis.

Il sogno impossibile si avvera, Purple Rain vince un Oscar per la migliore colonna sonora originale e compie il miracolo di trasformare il musicista in una superstar tra le più famose al mondo, accrescendo nello stesso tempo il mistero sulla sua vita personale. L’album cambia per sempre la carriera di Prince: «È la mia croce e continuerò a portarla finché farò musica». In un’altra occasione ha detto che «m’ha fatto più male che bene, mi ha imprigionato in una casella».

Eppure questi pezzi sono rimasti al centro del suo repertorio fino alla fine della sua vita. Purple Rain è stata l’ultima canzone che ha suonato dal vivo ed è giusto così.

Da Rolling Stone US.

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