Che conforto dà accoccolarsi nel passato, che sollievo dimenticare il presente che è un gran casino e il futuro che non riusciamo a immaginare. Sento Disco Paradise di Fedez, Annalisa e Articolo 31 e vedo Cyndi Lauper portata di peso sulla riviera romagnola dei ’60, con Mina che passa in radio, le bolle di sapone, lo yo-yo, forse persino il telefono fisso. Dopo aver riesumato Il capello di Edoardo Vianello, ora Myss Keta ha costruito Profumo sulla sigla di Love Boat evocando un tempo in cui le serie si chiamavano telefilm e le crociere non erano esperienze cafonal. L’unz-unz di Rovazzi e Orietta Berti intitolato programmaticamente La discoteca italiana porta dritti in un mondo immaginario fra passato e presente, fra l’arciromagnola Orchestra Casadei e la milanese Balera dell’Ortica.
Che gli è preso agli autori di canzoni? Cosa sono questi brividi nostalgici, questa voglia di revival che attraversa tormentoni veri e aspiranti tali? Cos’è quest’ondata di quasi strapaese e di canzoni bruttine ma perbene, cos’è questo lessico lontano dal vocabolario sboccato dei rapper? Perché gli echi d’un passato remoto sono diventati cifra comune di tanti pezzi estivi? Com’è che nei video di queste canzoni sembra d’essere contemporaneamente nel 2023, nel 1983 e nel 1963?
Prima di cercare una risposta, val la pena soffermarsi a guardare il bicchiere mezzo pieno. Grazie a quest’ondata d’italica nostalgia ci siamo forse, dico forse messi alle spalle il dominio del tormentone reggaeton-latino, anche se ormai fa parte del carattere nazionale e m’aspetto che torni come nei film in cui il mostro pare morto stecchito e invece riemerge dalle acque per un’ultima ferale zampata. Fate una donazione alla fondazione di Fedez, dobbiamo soprattutto a lui la liberazione dall’odioso giogo straniero, a lui e alla sua spedizione di Mille, episodio cruciale del rinascimento della canzonetta estiva finalmente autoctona. Fedez non è partito da Quarto, ma direttamente da primo in classifica spazzando via il real esercito del reggaeton.
Forse l’abbiamo rimosso come vittime d’un trauma troppo grande per essere elaborato, ma nel 2021 l’estate italiana era ancora tutta esotismi e boom-cha ba boom-cha. Poi è arrivata questa canzonetta paraculissima con un ritornello distintamente tricolore servito da Orietta Berti con fare da nonna che ti rimette in riga non con gli scappellotti, ma col sorriso. Mille si distingueva, eccome, dalle altre canzoni estive: era un pezzo italiano e aveva un’atmosfera indiscutibilmente nostalgica. Di cosa non era chiaro, se non che faceva sembrare Orietta una capace d’insegnare a Lauro e Fedez la buona creanza. All’epoca mica lo sapevamo, ma era l’annuncio al popolo italiano della fine della dittatura latina e l’inizio dell’era della nostalgia di quando c’erano le lire e tempo per fare l’amor (if you know, you know).
“Lo sai perché mi batte il corazón? Ho visto la mia tipa fare reggae-reggaeton”, cantava Aka 7even l’estate dopo. L’illuso non sapeva che il potenziale tormentonico di quello stile aveva i giorni contati. Lo s’è capito definitivamente quando Fedez ha messo assieme un altro colpaccio, La dolce vita con Tananai e Mara Sattei, undici settimane non consecutive prima in classica, il dominio sul 20% dell’anno fiscale. Il titolo rimanda al nostro bel cinema d’una volta e a tutta un’epoca da sogno, melodie e basi rimasticano il passato, nel video diretto da Olmo Parenti che fa molto Italietta del boom la canzone esce da un jukebox sulle cui etichette si leggono Sapore di sale, La gatta, Se ci sei. Ovvero: un immaginario anni ’60 a presa istantanea che era sì vintage, ma a quel punto sembrava quasi nuovo, immacolato e attraente nel suo essere perbene. «Chi canta prega due volte», ha detto Mara Sattei alle Iene citando (forse) Sant’Agostino. Chi canta italiano e nostalgico incassa quattro volte tanto, anche se per ora il nuovo triangolo di Fedez, Disco Paradise, è entrato al quinto posto in classifica ed è sceso subito all’ottavo a causa strapotere della commedia di Tedua. Fedez è già corso ai ripari e nel suo Gruppettino Segretino su Instagram (un segreto condiviso da 380 mila persone, vabbè) invita a “streammare” come pazzi la canzone. Premio: un giro nel backstage di Love MI.
Nell’era del tormentoni tutti sole, ragazze calientes e cocktail da spiaggia, le musichette estive ci portavano in un altrove, né città, né riviera massificata, ma un posto esotico e inesistente, una Mojitolandia unione di tutti i luoghi comuni sulla bella vita che crediamo facciano tra i Tropici e l’Equatore. Ora nell’anno dei tormentoni nostalgici e spesso spudoratamente banali non ci basta più essere altrove, vogliamo essere addirittura in un altro tempo. Vogliamo l’Italia e che sia quella ingenua degli anni ’50, quella formidabile dei ’60, quella allegra in modo spensierato e spendaccione degli ’80. I ’70 vanno bene, ma solo in discoteca, lasciando fuori violenza politica e crisi petrolifera.
È una questione di mode che s’avvicendano e del resto non possono piovere tormentoni latini per sempre. Magari si guarda al passato perché è facile, per mancanza d’uno stile originale, perché non c’è un altro filone musicale dominante contemporaneo che sia popolare e al tempo stesso agibile d’estate. O forse è una questione di commercializzazione della nostalgia. C’entrano gli under-qualcosa. L’idea è che quando non riesci più a immaginare un futuro finisci per rifugiarti nel passato, un atteggiamento tipico dei periodi storici in cui l’economia traballa e si cerca conforto nelle cose d’un altro tempo. Qualcuno dice che si tratta di nostalgia di un’epoca che precede i social e il fenomeno non a caso sarebbe esploso durante la pandemia, quando la vita sociale era limitata e quella online predominante.
Digitate su Google “nostalgia millennial” e “nostalgia generation z” e otterrete perlopiù articoli di marketing in cui si spiega, ne cito uno, che «l’uso costante di tecnologia e social media è correlato positivamente a un aumento di stress cronico, ansia e depressione tra i post-millennial». Ed è qui che entra in gioco il marketing della nostalgia giacché «la solitudine e l’ansia possono rendere i consumatori più propensi a diventare nostalgici e godere di visioni idealizzate del passato». Anche di quello che non hanno vissuto. Anzi, soprattutto di quello, perché si presta ad essere idealizzato. Forse anche le canzonette come il marketing fanno leva su una vulnerabilità emotiva e propongono modelli che appaiono semplici e rassicuranti in un mondo che è diventato complesso e inquietante specialmente da quando siamo diventati tutti quanti, come dire, più sensibili. Immaginiamo gli anni ’60 o ’80 più felici del presente e c’accoccoliamo in questa visione.
Non è solo una questione di marketing. E non è nemmeno retromania, come l’ha codificata una dozzina d’anni fa Simon Reynolds parlando di altre musiche. È retrotopia, che è qualcosa di diverso. Se fossi Zygmunt Bauman direi che la retrotopia è la doppia negazione dell’utopia, «una visione situata nel passato perduto/rubato/abbandonato ma non ancora morto, e non legata a un futuro non ancora nato». E arriva peraltro nel momento politico appropriato, in cui chi ci governa ha vinto le elezioni promettendo di gestire la complessità del presente evocando il modello di un Paese felice che non c’è più e forse non c’è mai stato. Ci sentiamo individui condannati alla sconfitta e perciò «le speranze di miglioramento, a suo tempo riposte in un futuro incerto e palesemente inaffidabile, sono state nuovamente reinvestite nel vago ricordo di un passato apprezzato per la sua presunta stabilità e affidabilità».
Secondo un’indagine Ipsos, il 54% degli appartenenti alla generazione Z e il 53% dei millennial, ovvero le principali fasce d’età prese di mira dal marketing della nostalgia, avrebbero preferito nascere nell’epoca dei propri genitori. Lo trovo incredibile, ma forse gli autori di canzoni sanno che è vero e perciò recuperano frammenti di un patrimonio popolare che solo fino a pochi anni fa sembrava impraticabile poiché uncool. Non si tratta di scimmiottarlo, ma d’evocarlo in canzoni che suonano contemporanee. Lo sento in Italodisco dei Kolors, altro titolo programmatico e testo che dice: “Mi parte il basso dei Righeira se vado incontro agli occhi tuoi”. Lo sento persino in Fragole di Achille Lauro e Rose Villain, cantilena in levare ed esotica, sì, ma d’un esotismo casalingo, più Gruppo Italiano che collettivo giamaicano, e volendo anche in Bellu guaglione dove Rosa Chemical, il più strambamente arcitaliano dei cantanti pop under 30, mette perle e piercing a ‘O sarracino facendo leva sulla famigliarità di una canzone che è nel dna della nazione. In classifica in Italia c’è ancora e potrebbe restarci per buona parte dell’estate il diversamente tormentone Un briciolo di allegria che evoca altri tempi e un’altra Mina, così come Destinazione mare di Tiziano Ferro rimanda all’estate di Luca Carboni più che a quella di J Balvin.
Lo sento persino in Mon amour di Annalisa, che avrà come reference il pezzo del 2010 di Alexandra Stan Mr. Saxobeat (che per inciso è campionato in Vetri neri di Ava, Anna e Capo Plaza), ma nel volgarissimo tum-tum della base nel ritornello risuona l’eco burina del remix fatto da Bob Sinclair per A far l’amore comincia tu di Raffaella Carrà: riecco la grande bellezza di un’Italia svanita. Con un po’ di fantasia, Raffa mi pare evocata anche nel friccico sexy, ma giocoso e mai volgare di “lei che bacia lui che bacia lei che bacia me” (lì forse c’è anche l’Ambra di Io te Francesca e Davide, ma stiamo scivolando negli anni ’90). Nell’estate 2023 torna ad essere bello far l’amore da Trieste in giù, non c’è più bisogno di prendere un volo Roma-Bangkok.
Ci sarebbero anche Morandi e Jovanotti che cantano di “italiani bella gente” e del resto il cantante di Apri tutte le porte è memoria fattasi carne di una patria bella e perduta che molti rimpiangono perché testardamente allegra. I Coma Cose evocano il tempo in cui California era bambina in un video tutto piadine, sala giochi e stabilimenti balneari che pare un filmino casalingo d’altri tempi. L’evocazione del passato diventa personale nell’Aranciata di Madame, con la cantante che rammenta di quand’era “bimba immacolata” e “ti tenevo da un dito correndo nel prato”, proprio lei che pochi mesi fa faceva l’elenco delle sue fantasie sessuali chiamandole Amore. Sono solo alcuni esempi. Altre canzoni usciranno e saranno latineggianti, altre sono uscite e non esprimono questo senso di nostalgia e d’italianità, ma s’intravede un trend, uno slittamento verso la nostalgia come l’ha definita Svetlana Boym, un sentimento di perdita e spaesamento che è anche una storia d’amore con la propria fantasia. Non è un fenomeno italiano, è «un’epidemia globale di nostalgia, un anelito sentimentale a far parte di una comunità dotata di memoria collettiva, un desiderio struggente di continuità in un mondo frammentato».
Secondo il Guardian, la nostalgia sarebbe invece un modo per riscattare il passato alla luce dei concetti di empowerment e di fluidità di genere. Dagli scorsi decenni, cioè, prenderemmo solo le parti in sintonia col sentire contemporaneo, e quindi va bene il pop evoluto di Kate Bush, ma non, chessò, l’hair metal o altri fenomeni non queerizzabili. Mi pare una lettura troppo elitaria per essere applicata a chi canta Disco Paradise in spiaggia col cornetto in mano e ancora si domanda cosa mai significhino le lettere QIA di LGBTQIA+. Quel che mi sembra accomuni tante musiche, testi e melodie è invece l’idea che si possa evadere dal presente tramite l’evocazione di un passato imbellettato e sottoposto a un processo di colorizzazione emotiva.
Un accordo alla volta stiamo creando la cartolina di un’Italia remota e felice, e lì ci rifugiamo per i tre minuti della durata d’un tormentone. Però poi, come cantava quello là negli anni ’80, tocca fare i conti con la vita che rintocca.