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Dio, concedimi un altro concerto: ‘Road Diary’, la preghiera americana di Springsteen

Il regista Thom Zimny racconta il documentario sull’ultimo tour di Bruce con la E Street Band. I suoi concerti non sono più maratone in cui dare tutto fino a consumarsi, ma una celebrazione della vita di chi vede avvicinarsi la morte

Foto: Disney+

Lo vedrete fare le prove con l’apparecchio acustico, camminare non proprio speditamente, ricordare i tempi andati, parlare degli amici scomparsi, dire più “ieri” che “domani”. Vedrete insomma un Bruce Springsteen anziano. Lo è, avendo 75 anni. Quand’ha iniziato a incidere dischi, Elvis aveva la metà dei suoi anni e già sembrava vecchio. Ma forse per la prima volta, il documentario Road Diary: Bruce Springsteen and The E Street Band, da oggi su Disney+, racconta il musicista senza fare alcuno sforzo per nasconderne l’età, senza cercare di venderci il mito del rocker inossidabile che ti porta a dire «non ero in forma come lui manco quand’ero trentenne».

Mostrarcelo così non era in verità lo scopo di Thom Zimny, che da quasi un quarto di secolo è il regista di fiducia di Springsteen e a cui è stato affidato il compito di documentare il tour con la E Street Band partito nel 2023. È successo e basta. «Non ci siamo imposti una trama da seguire», mi dice Zimny in una breve intervista su Zoom. «Il soggetto è emerso in modo naturale durante le prove del tour ed è in fondo il tema di Letter to You: come affrontare la mortalità». Ecco, come lo fai senza tradire lo spirito vitale tipico del rocker e senza patetismi? «Ci sono momenti in cui Springsteen riconosce che non è più giovane, che l’orologio va avanti inesorabilmente, che si sta avvicinando alla morte. Ma non ci sono tristezza e neppure nostalgia. Vederlo in concerto ti fa pensare alla tua, di vita, ti incita a vivere il presente con le persone a cui vuoi bene».

Regista embedded organico al sistema-Bruce, Zimny ha diretto o co-diretto con Springsteen tutti i suoi documentari degli ultimi anni, da quelli storici sulle session di Darkness on the Edge of Town, Born to Run e The River fino a Springsteen on Broadway, Western Stars e Letter to You, più vari videoclip. È in un certo senso uno della band da quasi 25 anni, è cresciuto come cineasta con e grazie a loro. «Ma non do per scontato d’essere chiamato», dice professando umiltà. «Il mio lavoro è tenermi pronto a immortalare qualcosa di grandioso, quando accadrà. Perché so che succederà, ogni volta».

Questa volta ha tirato fuori 100 minuti di film rock costruito in modo tradizionale e per niente sorprendente, ma con un oggetto di studio decisamente fuori dal comune. Non è esattamente un film-concerto e nemmeno un documentario sulla storia della E Street Band. È il racconto della visione di una performance di Springsteen vista attraverso il filtro della sua storia. Performance che non è tanto, che non è più una maratona in cui dare tutto fino quasi a punirsi fisicamente ed essere esausti, ma una celebrazione della vita dopo aver visto avvicinarsi la morte. “I’m alive!” urla Bruce nella canzone che apre il film che s’intitola non a caso Ghosts e forse è già tutto lì in quei primi minuti.

Zimny non è un regista dotato di una sua “voce” distintiva, la sua visione è sovrastata da quella di Springsteen che gli ha dato accesso non solo ai concerti in giro per il mondo, ma anche, e questo è il bello, alle prove che si sono svolte al Vogel di Red Bank, New Jersey. Lo ha chiamato qualche giorno prima dicendogli di tenersi pronto a girare. Quella del Vogel e delle prove generali alla Cure Arena di Trenton, sempre nel Jersey, è una band un po’ arrugginita che riparte, anche con nuove forze in organico, per un totale di 17 fra cantanti e musicisti che devono rispondere prontamente alle richieste di cambiamenti che Bruce vuole apportare alle canzoni. È la prima volta che il rocker lascia che qualcuno filmi le prove, ma è tra i produttori del film col suo manager Jon Landau, non si vede nulla che possa mettere lui e i suoi anche lontanamente in imbarazzo. È la visione di Springsteen, dettata dai suoi voice over. A un certo punto parla con Jake Clemons della durata del concerto che stanno per imbastire. Il sassofonista gli dice che dopo tanti anni di inattività potrebbero suonare meno del solito, lui risponde in modo enfatico, in fondo le camere sono lì davanti, che «non posso farlo, non posso deludere i fan».

Ci sono fantasmi fin dal principio. Springsteen arriva al Vogel e rammenta che negli anni ’60 le strade di Red Bank erano piene di teenager che oggi saranno settentenni, ottantenni, morti. Ci sono poi i ricordi dei Castiles, la band di cui il musicista è l’unico sopravvissuto, il last man standing. «Non sappiamo per quanto tempo saremo ancora in giro», dice Roy Bittan, mentre Max Weinberg spiega al percussionista nuovo arrivato Anthony Almonte che non importa se una cosa l’hai provata in una certa maniera, contano sempre e solo il momento e la volontà di Bruce. Per il batterista l’imperativo è catturare l’energia frenetica delle performance di mezzo secolo anni fa, o forse sarebbe meglio dire che cercano di rievocarla, giacché riaverla è impossibile e lo capisce dai pochi secondi in cui le vecchie performance sono affiancate alle nuove. Ma non è questo il punto. Il punto è che l’intensità delle esecuzioni deve essere inversamente proporzionale al tempo che pensi ti sia rimasto da vivere: ne hai poco, devi dare tanto.

Le riprese sui palchi si mescolano a immagini, storie d’epoca e interviste ai membri della E Street Band, comprese quelle di repertorio a Clarence Clemons e Danny Federici. Possono sembrare fuori luogo, un cliché dei documentari rock, e non hanno alcuna completezza narrativa, sono flash. Ma hanno una loro rilevanza perché mettono in evidenza tra le altre cose l’importanza della black music e l’influenza dello vecchio show business che hanno reso Springsteen il performer che è. In più, i filmati vintage rendono dolceamaro il racconto di Road Diary. L’invito a vivere il presente non sarebbe altrettanto urgente se tutto quel passato non fosse irrimediabilmente svanito. Un po’ intristisce: è la storia di una generazione che sta sparendo un musicista alla volta. Un po’ esalta: è una celebrazione della vita e della musica.

«Quest’ultima cosa» mi dice Zimny «è proprio quella che spero d’avere catturato col film. La vitalità di quell’esperienza è innegabile. Li filmavo mentre suonavano per tre ore e mezza. La mattina dopo io ero esausto e invece Bruce era lì che mi mandava vocali coi suoi commenti. Fatico a esprimere a parole cosa rappresenta la E Street, ma credo che Road Diary catturi un po’ di quello che provavo da adolescente e che ho cercato di riprovare per il resto della vita, il senso di connessione della band, il potere della musica, le relazione tra i fan. Volevo portarvi nel pit».

E ci si arriva, nel pit, dopo 25 minuti di film dedicati alle prove, con Zimny che moltiplica i punti di vista per far vivere l’esperienza nel modo più esaltante possibile, alternando riprese sopra e sotto i palchi, durante le prove, stralci di interviste, immagini di repertorio, commenti dei fan, con una predilezione per gli spagnoli e per Barcellona. Non è un film per chi vuol sentire le versioni complete delle canzoni del tour, ma per chi vuole dare una sbirciata dietro le quinte, per chi vuole vedere da vicino facce che magari ha visto da centinaia di metri di distanza e soprattutto per chi vuole una “lettura” di quegli show che sono anche figli dell’esperienza fatta a Broadway, quando Bruce rifaceva la stessa scaletta tutte le sere.

Anche in questo giro di concerti ha fatto qualcosa di simile, mettendosi (momentaneamente?) alle spalle l’idea della E Street Band come jukebox vivente e cercando invece di raccontare una storia attraverso la set list, ovvero «la percezione del tempo che passa, la morte che si avvicina» (Landau) o anche «la vita, la morte e tutto quello che c’è nel mezzo» (Springsteen). «È un’esperienza spirituale, è chiesa», dice a un certo punto Curtis King, uno dei coristi, sintetizzando uno degli aspetti chiave del tour e anche un po’ del film che si chiude con Springsteen che recita un passo dell’American Prayer di Jim Morrison, l’invocazione al Creatore affinché gli venga concessa un’altra sera per fare arte e perfezionare la vita.

Il nucleo della E Street Band. Da sinistra, Garry Tallent, Nils Lofgren, Steven Van Zandt, Bruce Springsteen, Max Weinberg, Patti Scialfa, Roy Bittan. Foto: Disney+

Fare musica dopo una certa età è una faccenda sia interessante, sia complicata, dice Springsteen tirando le somme. «Intendo farlo fino alla fine e finché la band vorrà seguirmi. So una cosa: dopo 50 anni sulla strada, è troppo tardi per fermarmi. Il tempo scorre veloce quando sei on the road. Ho sempre pensato che la gente non paga necessariamente per sentire la sua canzone preferita o per rivedere la tua faccia invecchiata. Pagano per l’intensità della tua presenza, per quanto sei vivo ogni sera. È il succo del mio lavoro, essere lì e solo lì, suonare per la posta in gioco che offre il rock and roll per te, nella tua città, stasera. E nel farlo, voglio lasciarvi l’idea di tutte le possibilità che la vita offre in modo che possiate portare un po’ d’energia fuori dai cancelli dello stadio, nella vostra vita, col sorriso sulle labbra e un po’ d’amore nel cuore, l’anima acquietata e magari rincuorati».

Oltre ad essere la preghiera americana di Springsteen nell’ora dell’inevitabile declino, un documentario su quello che lui chiama «il modo in cui giustifico il fatto di essere venuto al mondo», e cioè suonare dal vivo, una testimonianza della trasformazione della E Street Band da rock band a rock & soul revue, Road Diary è anche una storia di amicizie virili. Ha fatto notizia il racconto che Patti Scialfa ha affidato al documentario del mieloma che le è stato diagnosticato nel 2018, ma c’è un’altra cosa interessante che dice in Road Diary, quando parla con ammirazione del cameratismo che si ricrea ogni volta all’interno della E Street Band. Landau spiega che Springsteen ama circondarsi di gente che può chiamare famiglia. Un forte senso d’interconnessione lega le piccole e grandi storie raccontate nel film, per non dire dello spirito espresso dalle performance. Il capofamiglia (in questo caso possiamo ben dire il boss) è ovviamente Bruce. Zimny non l’ha mai sentito lamentarsi del suo ruolo di guida.

«Non ho mai avuto l’impressione che senta un peso sulle spalle. La cosa più impressionante che ho avuto la fortuna di vedere coi miei occhi standogli vicino è la dedizione a quel che fa oggi, nel presente, adesso. Non l’ho mai visto adagiarsi sul passato. La E Street non è una band di nostalgici, ma di musicisti che ogni sera si domandano: come facciamo a dare il massimo? Glielo leggi in faccia, così come capisci il senso di gratitudine che provano per essere in grado di tornare di nuovo sui palchi a suonare. Sai cosa mi ha ricordato? Lo spirito che c’era negli anni ’50 o ’60, quando per la prima volta i rocker si esibivano di fronte a un pubblico. Ecco cos’è, è quell’eccitazione, è quel darsi alla gente chiedendosi ogni volta che cosa potrà mai accadere sul palco».

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