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Dopo ‘Dovete’ e ‘Tutti’ esce ‘Sucare’, il disco postumo de Il Culo di Mario

Era una band folle e di culto, un bug nel sistema del primo indie italiano. La loro storia si chiude col completamento di una trilogia che è un attacco ai menosi della musica. Ecco com’è andata

Foto: Ray Banhoff

Che strano che fa parlare di un disco postumo, sembra di parlare di un morto. Di qualcosa che effettivamente non c’è più, ma che ha lasciato traccia, qualcosa di cui senti ancora la presenza che ti solletica come un fantasma. Ecco cosa senti mentre ascolti le note d’apertura di Metamphopotamia cantata in giapponese (semplicemente assemblando un testo con Google Translate), mentre entri godereccio nel riff in Re Maggiore pieno di flanger tipico de Il Culo di Mario. Ed ecco che ti commuovi.

Molti di voi non conosceranno questa band, nata come un duo a cavallo tra il 2014 e il 2016 e in due anni capace di diventare un piccolo culto tra chi li ascoltava o assisteva agli strampalati concerti a Milano o in giro per l’Italia. Era un momento diverso, c’era ancora l’indie in piedi e la trap non aveva monopolizzato tutto. Bello Figo esisteva ma era un fenomeno per pochi nerd, sembra un’era fa. A quel tempo aveva ancora un senso boicottare l’indie della “musica bella e dei baci” e tutta l’estetica mucciniana del MiAmi Festival. C’aveva sfracassato i coglioni quella roba lì, c’aveva affossato il mood. Era tutto serio, tutto denuncia, tutto pesantezza, tutto centrali elettriche e circhi zen.

Il Culo di Mario, già dal nome, era ascrivibile a fenomeno spontaneo di attacco al sistema. Un bug messo nel Matrix che doveva solo far ridere, ballare e cantare. E ci riusciva. I più frettolosi, ma soprattutto coloro che non avevano ironia, li etichettavano come un sottoprodotto nonsense stile Skiantos o Elio ma i loro riferimenti musicali invece erano altissimi, dai Police ai Flaming Lips, al Beck lo-fi dei primissimi album.

Foto: Ray Banhoff

Dalla loro c’era un fatto: suonavano da dio, anche dal vivo, anche prima di avere un batterista e un bassista (Procione e Chiodo). Ed era assurdo perché si presentavano come una band finta, senza aspettative, come uno scherzo, senza mai fare troppo sul serio, ma ti ritrovavi nei giorni dopo a canticchiare in macchina Uragano su Milano, Rogoredo Dreaming o Osvaldo.

Il merito di tutto questo era dei due soggetti, della coppia, di cuore e cervello (o palle e culo) della band. Dell’energia che mettevano in moto. Alessandro Mannucci e Francesco Roggero. Il primo un autore televisivo e forse un comico ipercolto, il secondo performer totale oggi noto come Auroro Borealo e inventore di Orrore a 33 giri e Libri Brutti, ai tempi leader maximo della Da Rozzo Criù. Si conobbero sul lavoro in tv da Chiambretti e solo grazie alla perseveranza di Roggero, Mannucci accettò di suonare in pubblico spronato a forza per la prima volta a 40 anni («C’ho messo sei anni a convincerlo»). Non aveva nemmeno un amplificatore ai tempi, lo dovette comprare prima del loro debutto dal vivo. Un gran chitarrista maledetto lui, con una collezione smodata di chitarre assurde. Era timido, restio, complessato, senza la “visione” di Roggero i due non sarebbero mai diventati una band.

Il Culo di Mario poteva sfondare nel cabaret come nello show business, i due potevano condurre un programma tv, essere una band perfetta per le feste (io li ho avuti a un compleanno), trasformarsi in un culto di cui portare le magliette. Invece hanno fatto quattro dischi (compreso il nuovo Sucare), quaranta date, decine di videoclip, una musicassetta e il materiale per un terzo disco, tutto in due anni a mille e poi sono schiattati.

Foto: Ray Banhoff

Dopo lo scioglimento, per quasi tre anni i due non si sono parlati e sono passati dal condividere tutto al silenzio. Hanno rotto per i motivi per cui rompono sempre le band, che sono un sogno utopico di fratellanza che mal si concilia con la vita di tutti i giorni. Uno si sposa e ha un figlio, l’altro lavora, poi ci sono i casini, le bollette, le agende diverse, i desideri diversi. Non è che puoi andare su e giù per l’Italia a suonare senza stress. Si smette di parlare e in pochi passi si passa da essere una squadra a due squadre contrapposte. Come in amore.

Ma l’amore vince su tutto e finalmente è uscito Sucare, il terzo capitolo della trilogia che aveva già declamato Dovete e Tutti, entrambi usciti nel 2016. La magica frase è formata, l’anatema scagliato contro i menosi della musica. Al Culo di Mario devono tutti sucare. Vero.

Quando esce un disco di solito la gente che ci lavora esulta. Si organizzano i live, anche da casa come in questa era pandemica, ma comunque sembra sempre di partecipare a un pezzettino di presente, fa ancora l’effetto “io c’ero”. Invece Sucare arriva nel silenzio. Al telefono Alessandro Mannucci e Francesco Roggero ti dicono entrambi la stessa cosa, sminuendo: «sì, ma è roba vecchia, era già registrata, l’abbiamo messa assieme e basta».

Ma lo fanno come quando ti chiedono se stai piangendo e invece rispondi che hai solo una pagliuzza nell’occhio, perché siamo uomini adulti e non possiamo già essere nostalgici a quarant’anni. Difatti piange anche Mannucci nell’ultima traccia del disco, La versione di Francesco / La versione di Alessandro, un pezzo che sul canale destro ha la sua storia sul perché si sono sciolti e sul sinistro quella di Roggero. Assieme, da ascoltare con due cuffie separate se vuoi capirci qualcosa. Roggero chiede scusa per esser stato forse pressante e Mannucci con la voce rotta dal pianto dice: «Se non avessi mai incontrato Francesco non avrei mai fatto quello che ho sempre sognato di fare». Non è tutto bellissimo? Lunga vita al Culo.

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