A un certo punto si mise in testa di scrivere una canzone sui Rom serbo-montenegrini. Era affascinato da quel popolo affetto dalla mania di viaggiare di continuo, forse per illudersi di sfuggire alla morte. Ne diede una versione letteraria limpidissima. La canzone s’intitolava Khorakhané, era un giro fantastico nella storia di un popolo e in un campo nomadi, col cuore che rallenta “in quel pozzo di piscio e cemento” e spose bambine cui tocca andare a chiedere la carità e, certo, anche a rubare. In coda piazzò un magnifico canto in lingua romanès intonato da Dori Ghezzi. Il pezzo stava dentro un disco di musica panetnica, con riferimenti che andavano dal Brasile ai Balcani. Era il 1996. L’avesse pubblicata oggi quella musica l’avremmo accusato di appropriazione culturale o invitato a non fare politica. Lui era anarchico, se ne sarebbe fregato.
Dov’è Fabrizio De André ora che ne abbiamo bisogno? Mancano la sua scrittura precisa e tagliente, il suo modo di soppesare le parole, il suo sguardo lucido sulle cose. Se non fosse morto nel gennaio 1999 oggi compirebbe 80 anni. Chissà che cosa avrebbe scritto di questi anni disgraziati, del caos in cui viviamo, di chi oggi porta un “suo marchio speciale di speciale disperazione”. Fosse vivo, magari sarebbe considerato un vecchio trombone. Il suo modo di fare musica è effettivamente antistorico e un po’ lo è sempre stato, dagli anni ’80 in poi. Mentre la canzone italiana s’ispirava alla sintesi tipica del linguaggio pubblicitario, assorbiva i suoni del pop elettronico e seguiva l’aspirazione di parlare a un pubblico sempre più vasto, lui pubblicava un disco in una lingua incomprensibile e suonato con oud, zarb, saz, bouzouki, shannaj. E poi, chi si mette oggigiorno a ricercare per mesi l’argomento di una canzone, di un disco? De André non temeva di sparire anche per anni, non era guidato dall’imperativo di occupare lo spazio mediatico sempre e comunque. Ma sapevi che c’era e che prima o poi avrebbe pubblicato un disco, probabilmente un concept frutto della sua immaginazione, del suo talento nel combinare uomini e idee, della capacità di assorbire e rielaborare e, certo, rubare suoni e stili, musiche e parole.
In questo mondo di musiche deprezzate fa specie pensare al modo in cui De André calibrava ogni suono, ogni frase, ogni concetto. Quando abbiamo smesso di pensare alla canzone come a un oggetto capace di contenere idee che vadano oltre l’autocelebrazione o il racconto di piccole fatiche trasformate in imprese epiche, abbiamo cominciato ad ascoltarla con ironia e distacco. Le sue, di canzoni, esigevano attenzione. Non che fossero sempre terribilmente serie. Al contrario, De André sapeva essere divertente e velenoso, ma con una sola frase riusciva a descrivere un mondo e tu restavi lì a bocca aperta a chiederti come gli era venuta. Scoprivi, magari, che l’aveva presa a un autore che non si diceva indignato, ma onorato. Che fosse un grande cantante è fuori discussione. Contava il modo in cui scandiva le parole, allungava le vocali, sottolineava le consonanti, porgeva le parole. A pensare alla musica in cui viviamo immersi, sembra un gigante che parla una lingua aliena.
Lui borghese, che quando lo diceva in concerto i compagni fischiavano, lui nottambulo incazzato “mediamente colto, sensibile alle vistose infamie di classe”, lui “forte bevitore, vagheggiatore di ogni miglioramento sociale”, lui “amico delle bagasce” non si è mai tirato indietro quando si è trattato di raccontare il mondo. Può darsi che pensare a come avrebbe descritto il 2020, all’età di 80 anni poi, sia un esercizio impossibile e inutile. Eppure viene da chiederlo: cosa avrebbe detto di questa Italia, di questi italiani? Piace pensare che un indizio sia contenuto nell’ultima canzone che ha lasciato, un pezzo definitivo non solo perché è collocato in fondo al suo ultimo disco in studio, ma perché riassume una parte notevole di quel che ha scritto e pensato.
La canzone s’intitola Smisurata preghiera ed è liberamente tratta dall’antologia poetica Summa di Maqroll il gabbiere di Álvaro Mutis, uno di quelli che, saputa la cosa, cominciò a pensare che “forse dovevo essere io, tra i due, quello lusingato di aver incontrato l’altro”. Il pezzo contiene una delle strofe più celebri del De André maturo, quella sul viaggiare in direzione ostinata e contraria che è diventata uno slogan consunto e stucchevole. C’è un altro passaggio notevole. È la descrizione impietosa di che cos’è la maggioranza, sono frasi che fotografano anche il nostro tempo: “Recitando un rosario di ambizioni meschine, di millenarie paure, di inesauribili astuzie, coltivando tranquilla l’orribile varietà delle proprie superbie la maggioranza sta. Come una malattia, come una sfortuna, come un’anestesia, come un’abitudine”. Ecco, forse di questo avrebbe cantato De André: del nostro osceno desiderio di sentirci maggioranza.