Si usa dire che morto un papa se ne fa un altro. Non vale per Kurt Cobain. Nel trentesimo anniversario della sua morte, possiamo dire senza incertezze che nessuno ne ha preso il testimone e che un altro Cobain probabilmente non nascerà più. Quando si parla di lui si parla inevitabilmente dei Nirvana e della loro musica, ma Cobain non è tutto lì. È un fatto ancora più evidente dopo aver scoperto il talento di autore di Dave Grohl, sempre in qualche modo represso nei Nirvana e sbocciato solo dopo la fine del gruppo. Possiamo criticare i Foo Fighters, ma non possiamo glissare sul fatto che hanno una poetica e anche piuttosto solida. E che, per l’appunto, il Grohl dei Foo Fighters non è il Grohl dei Nirvana.
Lo stesso vale per Cobain. Dietro alla facciata di rocker urlatore e amante del noise si nascondeva un delicato cantautore che veniva a galla in ballate come About a Girl e All Apologies, nate da un’immedesimazione con la musica d’autore degli anni ’60, con il blues di Leadbelly, con i country-folksinger Terry Jacks e Arlo Guthrie e dulcis in fondo con le canzoni dei R.E.M., dei quali era un fan sfegatato. Pare che avesse in programma un disco con queste caratteristiche, di cui l’MTV Unplugged dei Nirvana, per forza di cose più cantautorale, sarebbe stato un po’ la prova generale (la demo dell’acustica Do Re Mi è un chiaro punto di svolta per il futuro).
Se la band era uno scudo senza il quale Kurt si sentiva nudo come un verme, dove possiamo ascoltare l’essenza del vero Cobain e del suo spirito più fragile e intimista? Senza dubbio in uno dei dischi più controversi di sempre, ovvero la colonna sonora del documentario del 2015 Montage of Heck. Composta interamente da demo registrate su cassetta, alla vigilia dell’uscita fece drizzare le antenne degli addetti ai lavori: chissà quali perle ci sarebbero state al suo interno. Una volta uscito, la reazione quasi unanime è stata di repulsione. D’altronde lo stesso Cobain era consapevole del fatto che quando un essere umano viene considerato un’icona diventa difficile accettare la verità. E quella che troviamo in Montage of Heck è verità assoluta: un Cobain crudo che registra le cose che gli vengono in mente all’istante, solo voce e chitarra, a volte senza nemmeno aver scritto un testo. Mozziconi di brani incompleti, mutilati, bozzetti sgraziati.
A Cobain sembra non interessare neanche la forma canzone, quanto l’attitudine alla canzone. Perché il tipo di cantautorato di Cobain è, chiariamoci, à la Syd Barrett. La tendenza alla canzone psichedelica intesa come campo largo dove rendere lecite le cose più weird, atonali, sperimentali, dallo spoken word al collage audio fino al vero e proprio strimpellare senza cura alcuna della tecnica, tornare a uno stato di purezza infantile e naïf, tutte cose atte a superare una comfort zone che nei Nirvana stava diventando tutto il contrario di qualcosa di rivoluzionario (la formuletta via il distorsore nelle strofe, dentro il distorsore nel ritornello sembrava quasi diventata un alibi per non inventarsi niente di nuovo) e che probabilmente lo stava consumando anche nell’intimo.
La critica si è schierata contro le speculazioni di cui era oggetto l’opera di Cobain asserendo che la sua morte aveva dato il via al recupero di “scoregge” vendute per arte, entrando direttamente in polemica con gli eredi. Altri si sono imbarazzati, come se si fossero trovati a scartabellare nei cassetti di un defunto senza il suo consenso. Solo pochi hanno invece colto la bellezza di questi acquerelli traballanti, di canzoni che sbocciano nell’essere incompiute, di sfoghi musicali che non hanno finalmente scadenze, obblighi e neanche un senso razionale degno di questo nome.
Montage è un capolavoro di songwriting lo-fi che dà seguito agli esperimenti di Daniel Johnston, altro mito assoluto di Cobain. Cose come la super medioevale Bright Smile suonata sulla dodici corde, la impro blues Happy Guitar o le struggenti She Only Lies o Burn the Rain non possono essere skippate come nulla fosse. Qui c’è Cobain, prendere o lasciare: non a caso questo materiale è la cosa più vicina ai dipinti del cantante, alla sua parte di artista visivo e materico (che in fondo Cobain sia un pittore anche quando suona è piuttosto evidente), altro aspetto di cui si è forse parlato troppo poco ed è invece un tassello fondamentale per capire la psicologia e la tensione alla libertà di una personalità schiava delle sue insicurezze.
In queste cassette semi smagnetizzate troviamo, in misura chiaramente minore, anche gli ululati che lo hanno reso il re del grunge: i riff di chitarra rocciosi e i feedback in cui sperimenta lo spettro sonoro proprio come i colori su una tavolozza. Ma si fatica a vedere cose come Rehash o You Can’t Change Me inserite nel contesto dei Nirvana, sembrano anzi la presa di distanza definitiva da quel repertorio in quanto urlati “a bassa voce”, con la chitarra amplificata e distorta a meno 1 nella propria cameretta, con l’implosione teneramente disagiata tipica dell’adolescenza ma anche del tentativo di annullare la parte machista del rock a favore della malinconia di una solitudine alla Nick Drake (e infatti Pitchfork non perse tempo a paragonare il disco a Family Tree, la raccolta di home recordings di Drake che a differenza di Montage non è stato stroncato).
Il Cobain vero è astratto: suona fantasmi che gli passano sulle corde mentre fissa per ore la televisione, si prende gioco della scena, di se stesso, della sua voce (il più delle volte canta come se fosse un goblin, in un falsetto innaturale che lo sgancia dal genere umano) e della sua stessa musica, che alla lunga diventa anche un peso, una condanna. È un’autoironia dolceamara che spesso ha il sapore dell’autodistruzione che ahimè alla fine si è realizzata proprio nel momento in cui Cobain dichiarava di essere finalmente felice del suo lavoro. Montage of Heck è una continua lotta alla noia in cui c’è spazio per cose semi-residentsiane tipo Beans (già nel cofanetto With the Lights Out per dire quanto in fondo fosse stilisticamente importante) e i cut-up burroughsiani che sono anche una diretta citazione di Revolution 9 del White Album.
Perché i Beatles, anche qui, sono fondamentali: la cover di And I Love Her, che è diventata per forza di cose una sorta di singolo, è meravigliosamente diafana e rappresenta non solo un chiaro passaggio generazionale di testimone dai Fab Four ai Fab Three, ma anche e in primis tutte le contraddizioni di Cobain. Uno che ha sempre dichiarato di avere John Lennon come Beatle di riferimento per i suoi difetti mentre si sentiva «imbarazzato dal talento di McCartney» e che ti va a rifare proprio una canzone del Macca. Perché la dannazione di Cobain era proprio l’imbarazzo, il vergognarsi delle proprie capacità di cui era fin troppo consapevole, tanto da cercare di sedarle o di spingerle lì dove non era più possibile andare, sabotandole. And I Love Her non è una semplice cover, ma un manifesto di intenzioni: quello di abbassare una volta per tutte le difese e darsi in pasto alla totale sincerità di ciò che si è.
Diceva Cobain: «Avevo così poca stima di me che non riuscivo minimamente a pensare di poter diventare una rockstar. Non riuscivo minimamente a immaginare di arrivare in televisione o rilasciare interviste o cose del genere». E in effetti, rockstar non lo è mai stato. Voleva in fondo somigliare all’amico poeta Mark Lanegan, essere «solo il cantante folk che sta in mezzo a loro due», ovvero Grohl e Novoselic. E invece è arrivato direttamente nell’afterworld di Leonard Cohen, ma non abbiamo la certezza che stia sospirando eternamente: sappiamo però che dall’aprile 1994 lo stiamo facendo noi.