È tutta colpa di Max Pezzali | Rolling Stone Italia
Se non hai difesa gli altri segnano

È tutta colpa di Max Pezzali

Pensieri dopo le tre date a San Siro. Abbiamo lottato in tutti i modi per resistere all’effetto nostalgia, ma alla fine ha vinto lui, Max, l’amico di sempre. Perché nessuno ha raccontato in modo semplice la provincia italiana e gli anni ’90

È tutta colpa di Max Pezzali

Max Pezzali a San Siro

Foto: Luca Marenda

Dicono che quelli della mia generazione, i millennial, siano cresciuti con una certa predisposizione alla nostalgia. E chi lo dice ha ragione. Ci trovate infatti al cinema ai vari anniversari di Ritorno al futuro, su YouTube a riguardare spezzoni di Friends (rest in peace Matthew Perry), ai concerti di Max Pezzali a cantare La regola dell’amico.

I nostri verbi iniziano spesso con il suffiso ri-, quello di ri-cordare, ri-vedere, ri-sentire. Abbiamo trent’anni ma guardiamo al nostro passato con la nostalgia del reduce. Al futuro, costretto a cercare di farsi spazio tra le sindromi di Peter Pan, preferiamo il ricordo di ciò che ha segnato la nostra giovinezza. Sarà che abbiamo smesso di pensare al futuro presto, quando con la crisi del 2008 ci dissero che quel futuro immaginifico dove tutto era possibile non ci sarebbe più stato. Sarà che poi è arrivata l’eco-ansia, l’instabilità politica mondiale, lo spettro di fascismi e nazionalisti. O semplicemente la Gen Z a dirci che avevamo sbagliato tutto. “Ma che colpa abbiamo noi?”, cantava Shel Shapiro. La colpa di questa iper-nostalgia non è mica nostra, siamo seri, è di Max Pezzali. È tutta colpa sua.

Povero Max, direte. Ma pensateci bene; è stato lui a raccontare, inquadrare, idealizzare gli anni ’90 italiani (quelli della nostra giovinezza, o quelli dell’adolescenza o della post-adolescenza per la generazione a noi subito precedente) come nessun altro, a mettere a fuoco la realtà sfigata di provincia e, di conseguenza, di noi sfigati che fino a quel momento non avevamo nessuno capace di parlare di noi, come noi, con il nostro linguaggio. Il deca e la Zündapp, i raudi e le miccette, lo sfigato e quella che se la mena. Un gergo da provincia comune ai più, capace di risuonare proprio perché l’Italia è questo, una grande provincia fatta di estati fisse al Bagno Sirena di Gatteo Mare (sto proiettando troppo la mia infanzia?), di farmacie che numericamente sovrastano le discoteche (oramai abbandonate), di tappetini nuovi e Arbre Magique nell’attesa di un amore irraggiungibile, magari con la Regina del Celebrità di zona. “Chi le ha inventate le fotografie / Chi mi ha convinto a portar qui le mie / Che poi lo sappiamo, scattan le paranoie”. Ora ditemi ancora che non è tutta colpa sua.

Ma la nostalgia, si sa, è un sentimento falso, fallace. Non erano così speciali gli anni ’90, non era così speciale la provincia e nemmeno noi o il nostro passato. Però Max, con una semplicità disarmante, e una uncoolness unica, è riuscito a farcelo credere racchiudendo le immagini e gli slogan di quel momento storico in una serie di canzoni diventate presto assolute e evergreen. Gli anni, La dura legge del gol, Nella notte. E ancora, Sei un mito, Hanno ucciso l’uomo ragno, Come mai. Quante persone cresciute in Italia tra gli anni ’90 e i 2000 possono mettersi una mano sul cuore e giurare di non conoscere in modo assoluto il ritornello, o almeno alcuni passaggi, di brani come Con un deca, Rotta x casa di Dio o Sei un mito? Ok, immagino che certi salotti aristocratici e certi centri sociali schieratissimi avessero bandito ogni possibile ascolto di quelli che furono gli 883 di Pezzali e Repetto, ma per tutti gli altri non c’è scusa che tenga. Max Pezzali è la cultura italiana, è la pasta al sugo del pop del bel paese.

Sono 150 mila le persone che in tre giorni (da domenica a martedì) hanno popolato lo stadio San Siro di Milano per l’ex leader degli 883 (rispetto a due anni fa solo con la band, senza la parata di collaboratori storici come Paola & Chiara o Repetto). 150 mila nostalgici, tra cui me, che a 35 anni, scappato dalla provincia piemontese 18 anni fa, ricordo ancora tutte le parole a memoria senza che negli anni io abbia mai riascoltato questi brani (ad eccezione dell’outtake Lasciala stare, un capolavoro cringe dei primi 883, roba per palati forti). Negli ultimi due decenni ho provato in tutti i modi a emanciparmici, chiudendomi in qualche auditorium ad ascoltare la musica più sperimentale del pianeta, immergendomi in ore e ore di bagni di musica ambient, studiando e facendo ricerca per diventare il giornalista musicale che sono oggi. Ma alla fine, quando a San Siro Pezzali è partito con il suo fare robotico a cantare una delle sue hit, quel ragazzo sperso di provincia che vive dentro me si è ripresentato, ricordandomi che in me avrà per sempre dimora. Pezzali si è stabilito proprio lì, nel centro di noi, stringendo un’amicizia fraterna con quella parte della nostra giovinezza. Come minimo poteva allungarci un deca per l’affitto.

Alcuni studi sulla ayahuasca sostengono che la medicina dell’Amazzonia ha la capacità di svelare le memorie transgenerazionali che il nostro corpo eredita da chi è venuto prima di noi, nella nostra famiglia. Allo stesso modo, la musica di Max Pezzali sembra faccia parte di noi da ben prima del nostro primo ascolto, come tramandata nell’aria delle nostre province. È l’automatico delle sigarette in centro al paese, la sosta all’autogrill, la gita fuori porta della domenica. È la nostra geografia e il nostro contesto socio-culturale. È il 90º minuto delle nostre vite. La nostra storia, pop e popolare, cantata nel modo più semplice, chiaro, diretto che si possa immaginere. Anche nel mezzo di ogni nostra personale sovrastruttura, quell’eterno ragazzo senza capelli riesce ad arrivarci ancora forte come ieri per la sua onestà, una caratteristica oramai in disuso nell’industria musicale.

Forse mi devo ricredere. Max non ha alcuna colpa, quanto piuttosto molti meriti. Come quello di averci creduto sempre rimanendo fedele alla propria strada, mantenendo il sorriso, rimanendo su anche quando un tour negli stadi era un miraggio e tutta una serie di aree culturali e sociali lo denigravano o, come me, quasi si vergognavano di averlo fatto proprio. A suo modo – e forse non è un caso che Max abbia un fascino per le discoteche degli anni ’90 – il suo percorso mi ricorda quasi quello di Gigi D’Agostino, tanto da immaginare che gran parte del pubblico presente a San Siro potesse essere benissimo al grande evento di Gigi Dag di qualche settimana fa a Milano. In Max, come in Gigi, è stata la pura onestà artistica (e una capacità fuori scala di saper scrivere o comporre brani memorabili) ad aver la meglio. Ben oltre la qualità oggettiva (spesso rivedibile e giudicabile), Pezzali è arrivato molto più a fondo dentro la maggior parte di noi.

Ok, Max, allora hai vinto tu. Max forever.

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