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Ecco perché gli italiani entrano nelle classifiche globali di Spotify (per poi sparire)

Ascolti compulsivi, competizione, fissa per le novità, una piattaforma egemone che incoraggia il culto dei numeri: siamo diventati un popolo di santi, poeti e streamer ossessivi

Foto press

Non credo d’esser l’unico che ha letto la classifica due volte, per lo stupore. Un paio di settimane fa Spotify ha annunciato i titoli delle dieci canzoni appena uscite più ascoltate a livello globale. Sei pezzi su dieci di quella speciale chart, che si chiama Top Songs Debut Global, erano italiani e venivano da Sanremo 2023. Poco più di una settimana dopo, di quelle canzoni non c’era traccia nelle prime 50 della Top Songs Global, la classifica generale della piattaforma dominata dai soliti noti, da Miley Cyrus a SZA.

È il risultato non solo dei criteri che stanno dietro alla compilazione delle classifiche di Spotify, ma anche delle abitudini d’ascolto degli italiani. Siamo diventati un popolo di streamer, siamo ossessionati dalle novità, sentiamo a ripetizione gli stessi pezzi spingendoli ad eccellere tra le nuove uscite internazionali. Con la medesima velocità, passiamo ad altre canzoni. Forse il mondo prende nota della presenza in classifica dei nostri campioni, di sicuro continua ad ascoltare altro.

Perché le Debut Global, perché Spotify

Se le classifiche misurano solitamente il consumo di musica nell’arco di una settimana, la Top Songs Debut Global e la Top Albums Debut Global di Spotify tengono conto del numero di stream realizzati nel mondo (ad eccezione del mercato numero uno, gli Stati Uniti) solo dalle novità discografiche e solo nelle prime 72 ore dall’uscita.

«Queste due classifiche», spiega Paola Catò, Director of Streaming & Partner Development di Sony Music Entertainment Italy, «hanno portato un dinamismo maggiore nel mondo delle charts, mentre la Top Songs Global si basa su un consumo di musica che si consolida nel tempo ed è quindi più statica. La creazione di nuove charts è il modo con cui Spotify ha scelto di ingaggiare la community degli artisti e per definizione sono fatte per far vedere quel che succede in mercati diversi da quello americano. Le Debut, in particolare, valorizzano i trend legati alle nuove uscite». Uno dei trend vincenti negli ultimi anni in Italia è il rap. Ecco perché dalla Top Albums Debut Global, la classifica dove gli italiani entrano con più facilità, sono passati tra gli altri Fabri Fibra, Lazza, Salmo, Paky, Seven 7oo, thasup. E Marracash, che a novembre 2021 s’è piazzato subito dietro ad Adele.

La app svedese non rappresenta la totalità degli ascolti di musica online, né nel nostro Paese, né altrove. Si potrebbe quindi pensare che le classifiche di un singolo servizio di streaming non siano così importanti. Ma Spotify è più di un contenitore di musica. Oltre ad avere creato un brand fortissimo, è di gran lunga il servizio di streaming musicale più diffuso in Italia (tolto YouTube) e contribuisce perciò a plasmare il pop italiano come lo conosciamo. Di più: è da tempo sinonimo di streaming musicale. Secondo l’indagine Engaging with Music condotta nel 2022 per la Federazione Industria Musicale Italiana (FIMI), la app verrebbe usata nel nostro Paese dal 28,8% degli streamer contro il 9,7% di Amazon Music e appena l’1,5% di Apple Music. Non si tratta di dati ufficiali, che sono coperti da riserbo a causa della policy globale di Spotify i cui rappresentanti italiani, contattati per questo articolo, non hanno ritenuto utile concedere un’intervista.

La domanda è: com’è possibile che tanti nostri artisti compaiano nelle Debut? Succede perché ci sono tanti utenti di Spotify in Italia rispetto ad altri Paesi? Perché ascoltiamo tanta musica? Perché gli stranieri si sono accorti di noi? Giocano un ruolo le politiche fiscali italiane e magari il mercato nero degli stream? Non potendo contare sui dati di Spotify, che non fa sapere nemmeno quanti utenti ci sono in Italia (i dati a livello globale sono 489 milioni di utenti free e 205 milioni premium), ho girato la domanda ad alcuni operatori del settore. Ne è uscito un piccolo spaccato di come si ascolta e di come gira la musica oggi nel nostro Paese. Mettetevi comodi: non sarà breve.

Italiani che ascoltano italiani

Chiariamolo subito: gli italiani non entrano con relativa facilità nelle Debut globali perché vengono ascoltati all’estero. «Sono numeri made in Italy», spiega Eleonora Bianchi, Head of Digital Services & Consumption di Universal Music Italia. Gli ascolti internazionali della nostra musica, aggiunge Enzo Mazza, consigliere delegato della Federazione Industria Musicale Italiana (FIMI), «rappresentano in media il 2 o il 3% del totale». Non a caso, nella top 10 degli italiani più ascoltati all’estero nel 2022 non sono presenti i rapper che vediamo apparire nelle Debut, ma un mix di nostro pop tradizionale (Pausini, Ramazzotti), musica classica e contemporanea (Vivaldi, Einaudi), tanta dance (Meduza, Gabry Ponte, Gigi D’Agostino, Prezioso). È la “solita” Italia che va all’estero e che conosciamo da anni. Al primo posto ci sono ovviamente i Måneskin, che restano però un’eccezione (e che nell’ultimo anno e mezzo hanno perso dopo il boom ascoltatori mensili: dai 46 milioni del luglio 2021 agli attuali 27 milioni).

«I nostri rapper», spiega Bianchi, «sono apprezzati all’estero da artisti e producer, a volte riescono a fare feat interessanti, il loro sound e la loro immagine oggi sono molto più credibili di un tempo. Ma entrare nelle chart internazionali rimane una sfida e l’ostacolo della lingua italiana è notevole».

Nessuna illusione, perciò: il mondo non si è accorto di noi, siamo noi che ci siamo messi ad ascoltare musica come forsennati. «Qualcosa si sta muovendo, ma è ancora poco», conferma Paola Zukar, manager tra gli altri di Marracash, Fabri Fibra, Madame. «Se non altro, ci sono spazi di crescita. Il bello è che passano cose nuove, non solo la canzone tradizionale italiana». Come dice Bianchi, «un pezzettino alla volta, qualcosa dell’utenza estera rimane attaccata». Secondo i dati FIMI, per quanto riguarda il mercato estero le royalty generate dalla musica italiana nel 2022 sono cresciute del 15% arrivando a 22 milioni di euro di cui 18 derivanti dal digitale.

Se non è sufficiente per pensare queste canzoni abbiano un potenziale internazionale, «è comunque un inizio», come dice Zukar, «il primo risultato della globalizzazione che è possibile proprio grazie allo streaming. Oggi siamo uno dei Paesi in cui si ascolta più musica in streaming al mondo. Per la prima volta da sempre siamo un mercato che pesa».

I Måneskin dal vivo per Spotify nel 2023 in California. Foto: Monica Schipper/Getty Images for Spotify

Binge streaming disorder

Uno dei motivi determinanti del successo dei nostri artisti nelle Debut internazionali di Spotify è il numero elevato di stream che si effettuano in Italia. Non siamo più un mercato periferico come un tempo. «Da poco più di un anno», spiega Mazza, «il numero di stream complessivi in Italia ha superato il miliardo alla settimana. Da qualche mese siamo sopra il miliardo e mezzo. Significa che gli ascolti fatti dagli italiani in Italia sono decisamente superiori a quelli fatti in altri Paesi».

Questi volumi notevoli, che sono cresciuti durante la pandemia e che hanno contribuito in modo determinante a far entrare il nostro Paese tra i primi dieci mercati discografici al mondo, si combinano con altri caratteri nazionali. A differenza di quanto avveniva nell’era del CD dominata dai grandi artisti internazionali, oggi ascoltiamo per oltre l’80% musica italiana, un vantaggio competitivo rispetto ad altri Paesi dove si sente anche (e in alcuni casi prevalentemente) musica straniera. «Persino il Regno Unito», spiega Mazza, «ha avuto un calo del repertorio inglese rispetto a quello americano». Da noi è successo l’opposto ed è «il risultato di anni di investimenti delle nostre aziende discografiche sul repertorio dei nuovi talenti italiani».

È determinante anche il fattore età di chi ascolta musica in streaming e in particolare su Spotify. «Appartengono prevalentemente della generazione Z», dice Mazza, «e fanno, nel bene e nel male, ascolti compulsivi», la qual cosa va a vantaggio degli artisti hip hop e rap ascoltati in maggioranza a quell’età e che non a caso appaiono spesso nella Top Albums Debut Global. «In media, nella playlist settimanale di un fan della generazione Z ci sono dieci canzoni contro le cinquanta di un ascoltatore tradizionale». Quei dieci pezzi li ascoltano soprattutto su Spotify, tanto più che, secondo la ricerca succitata, gli utenti Spotify nella fascia d’età più giovane (16-24 anni) salgono fino a quasi il 60%. Col risultato che nelle classifiche della piattaforma il consumo di urban italiano sovrasta quello della musica d’altro genere.

L’ossessione per le novità

Un altro carattere distintivo del nostro streaming musicale, aggiunge Eleonora Bianchi, è che si basa molto sul consumo delle novità, che è esattamente il fenomeno registrato dalle Debut. «C’è uno zoccolo duro che ascolta subito e con “cattiveria” i pezzi che escono su Spotify». Il fatto che ci siano così tante nuove pubblicazioni ogni settimana non fa che alimentare il fenomeno: più novità vengono ascoltate, più novità vengono prodotte, più novità vengono ascoltate, a discapito di tutto il resto. «L’utenza è giovane non solo anagraficamente, ma anche rispetto all’utilizzo della piattaforma che è elementare, superficiale, si limita alle nuove uscite. In questo senso, il nostro è un mercato immaturo. All’estero il catalogo pesa molto di più».

Si è insomma verificato un cambiamento culturale non indifferente: gli italiani un tempo tristemente famosi per la pirateria sono diventati streamer forti e ossessionati da “poche” canzoni, sempre più italiane e nuove, che di conseguenza finiscono nelle Debut, primeggiando su mercati con differenti abitudini d’ascolto. E questo avviene soprattutto (ma non esclusivamente) nell’ambito dell’urban italiano che per sua caratteristica, spiega Catò, «ha un consumo molto più forte sull’uscita rispetto al pop, che permane più a lungo nel tempo. Il fenomeno della presenza italiana avviene specialmente nella Debut degli album, dove si consumano più tracce e c’è molto engagement della fanbase». L’ascolto su Spotify è diventato un modo per manifestare supporto al proprio artista preferito.

C’è insomma, come dice Bianchi, «una pazzia tutta italiana di creare hype attorno alle nuove uscite. In questo gli artisti, i manager, le case discografiche sono state brave e concentrano gli sforzi comunicativi e di marketing nel momento della pubblicazione». L’ingresso in queste classifiche è in parte condizionato dalla presenza o dall’assenza concomitante di altre uscite forti a livello internazionale, ma ha fatto una certa impressione vedere un anno fa quattro pezzi di Sanremo 2022 debuttare in una chart in cui erano presenti nomi grossi come Machine Gun Kelly, Rosalía, Juice WRLD, Nicki Minaj, Red Hot Chili Peppers.

Non va sottovalutato il fattore social, che oramai fa parte delle strategie di lancio della musica. «Siamo uno dei Paesi al mondo in cui la musica è più presente sui social in termini di creazione e condivisione di contenuti. I numeri sono impressionanti, è roba fuori di testa», nota Bianchi. Quello di Sanremo, poi, è un caso a parte. La tv in Italia ha ancora un peso notevole nel determinare gli ascolti in streaming. «E il Festival è una bolla che ha raggiunto dimensioni abnormi. Ogni volta diciamo: ok, questo sarà l’ultimo anno in cui avremo un risultato del genere. E invece…».

«Anche concentrare le uscite nella giornata di venerdì ha fatto sì che si creasse questa grande fame di novità», dice Emiliano Colasanti di 42 Records (Colapesce Dimartino, Tuttifenomeni, Andrea Laszlo De Simone). «Si sta tutti ai blocchi di partenza, si consuma la musica velocemente per poi aspettare le novità del venerdì dopo. E questa cosa vale soprattutto per l’urban italiano. Nel rap c’è un legame quasi ideologico tra genere e pubblico. È tutto strutturato affinché ogni venerdì ci sia un album o un singolo di quel tipo che massimizza gli ascolti dei fan di quel tipo: una settimana può essere Geolier, quella dopo Ernia, quella dopo ancora Guè. Nel pop succede molto meno».

Nel rap succede anche un’altra cosa notevole, nota Bianchi. Per quanto sembri assurdo, allo zoccolo duro di streamer appassionati si sommano gli ascolti di chi non apprezza l’artista. «Lo va ad ascoltare perché lo detesta e vuole sparlarne, sì, ma con competenza».

“Italians do it better”, recitava la scritta su una vecchia t-shirt di Madonna. In verità su Spotify noi italiani ci eccitiamo subito, ma duriamo poco. Nella maggior parte dei casi, infatti, il picco di successo certificato dalle Debut cala a livello internazionale e le canzoni e gli album che si fanno notare in quelle classifiche raramente figurano nelle altre charts mondiali (di recente vi è apparsa Cenere di Lazza). Il network internazionale non scommette sulle nostre canzoni, magari non hanno featuring che servirebbero a farle decollare, non entrano nelle playlist americane che permetterebbero di fare il grande salto, non vengono scelte per grandi sincronizzazioni. E poi ci sono, di nuovo, le abitudini d’ascolto di noi italiani. «Dopo avere consumato per una settimana una decina di pezzi», spiega Mazza, «per gli ascoltatori italiani più giovani quel contenuto evapora e si passa ad altre canzoni».

Le spiegazioni alternative

Certi numeri sono però talmente grandi da sembrare inspiegabili, per lo meno senza l’aiuto di Spotify. Prendiamo il caso di Lazza e lo prendiamo perché al di sopra di ogni sospetto, essendo l’artista italiano di maggior successo nel 2022 e di questa prima parte di 2023. Le cifre sono in continuo aggiornamento, ma nel momento in cui scrivo Lazza ha superato i sette milioni di ascoltatori mensili di Spotify, una cifra degna (quasi) di Laura Pausini. Nella sola Milano, Lazza ha secondo Spotify più di un milione e 300 mila ascoltatori mensili. In sostanza, non solo l’intera popolazione della città userebbe Spotify, ma nell’arco dell’ultimo mese avrebbe ascoltato almeno un pezzo di Lazza. Sembra impossibile. Anche considerando la provincia, risulta che il 40% degli abitanti della città metropolitana di Milano avrebbe ascoltato Lazza nell’ultimo mese usando la piattaforma svedese. Sono numeri incredibili. Sono anche verosimili?

La risposta data da alcuni è che sì, è possibile, perché Spotify ha una quota di mercato notevole e magari c’entra il modo in cui queste cifre vengono calcolate. La risposta che gli scettici danno a questa domanda è che in alcuni casi si potrebbe trattare di ascolti non organici. Così come si possono comprare follower e like sui social, esistono strumenti a pagamento che tramite bot e streaming farms promettono di farti realizzare un certo numero di ascolti su Spotify, a volte anche centinaia di migliaia. È tutto alla luce del sole e basta una semplice ricerca su Google per trovare i prezzari. «È un fenomeno che esiste», dice Colasanti, «e te ne accorgi quando a distanza di tempo gli ascolti di certi pezzi vengono defalcati perché la piattaforma si accorge del buying».

Spotify ha effettivamente posto in essere attività di contrasto a comportamenti di questo tipo e secondo Enzo Mazza, che rappresenta le industrie fonografiche italiane, sul successo degli italiani nelle classifiche Debut di Spotify non pesa il sospetto di ascolti comprati. «Uno studio effettuato in Francia dice che il fenomeno è limitato prevalentemente ad artisti che devono farsi notare e che non hanno contratti con le case discografiche. Inoltre, i controlli delle piattaforme hanno ridotto l’impatto del fenomeno. In Francia si parla di meno del 3% del mercato. In Italia la percentuale potrebbe essere persino più bassa e questo perché con un miliardo e mezzo di stream alla settimana la manipolazione diventa troppo costosa. Inoltre, per entrare nelle classifiche ufficiali FIMI contano solo gli ascolti premium, mentre i bot comprati agiscono prevalentemente sugli ascolti free» (ascolti free che però rientrano nel conteggio delle Debut).

Ci sono poi investimenti perfettamente leciti per spingere i propri contenuti online. Costituisce quindi un vantaggio competitivo per le nostre aziende discografiche il tax credit concesso in Italia a chi produce e promuove musica. Il credito di imposta «copre il 30% dei costi ed è stato esteso alla cifra un milione e 200 mila euro per azienda all’anno», spiega Mazza. Non sembrerebbe avere invece un gran peso l’inserimento delle canzoni nelle playlist editoriali. «Contrariamente a quel che si pensa», spiega il capo della FIMI, «le playlist non sono affatto decisive per il consumo di streaming in Italia. Si ascolta musica soprattutto cercando direttamente artisti e canzoni».

Il culto dei numeri

Alle piattaforme i picchi di ascolto servono e quindi, come dice Bianchi, «li alimentano, cercando di darci un boost e visibilità». Gli artisti a loro volta ne parlano, li condividono, se ne vantano. Non c’è giorno o quasi in cui in Italia non venga comunicato un piccolo o grande traguardo tagliato da un cantante, che sia un disco d’oro o di platino, una posizione in una delle innumerevoli classifiche esistenti, un numero di stream o di follower. L’effetto novità viene massimizzato a tal punto che molte canzoni italiane, soprattutto rap, vengono pubblicate all’una di notte del venerdì e non a mezzanotte come le altre. Succede perché, per una questione di fuso orario, gli stream effettuati tra le dodici e l’una non vengono conteggiati da Spotify nella settimana entrante.

I numeri contano e Spotify, come spiega Catò, «è l’applicazione che più di ogni altra valorizza i numeri e dà grande spazio alle classifiche, risultando quindi particolarmente accattivante per l’engagement di artisti e fan, laddove ad esempio Apple Music e Amazon Music non hanno numeri pubblici». L’app svedese basa parte della sua comunicazione proprio su dati e classifiche. L’account social ufficiale Spotify Charts ne pubblica otto, a volte nove a settimana, senza contare i post su altre statistiche e i risultati ottenuti da singoli artisti o nelle singole città. Se i nostri artisti sono felici di poter comunicare queste informazioni non è solo per vantarsene. In alcuni casi Spotify (di cui le major possiedono quote) assicura in Italia dieci, se non venti volte il numero di stream fatti su una delle piattaforme concorrenti. Pensate ai vostri guadagni e aggiungete o togliete uno zero: anche questa è la forza di Spotify. Persino il pubblico è felice di partecipare a questa grande celebrazione dei numeri dell’ascolto online e lo fa in vari modi. Quello più clamoroso è Wrapped, la condivisione di fine anno della classifica dei propri stream su Spotify. Sono altre centinaia di migliaia, forse milioni di classifiche nel mondo brandizzate e diffuse dagli ascoltatori a titolo gratuito.

Per alcuni, i numeri sono parte del processo di democratizzazione introdotto dallo streaming. «È una vecchia storia, ma è pur sempre valida», dice Catò. «Un tempo l’acquirente decideva di investire una certa cifra per comprare un disco più o meno a scatola chiusa. Oggi, nel contesto di un mercato competitivo e con molte uscite, i dischi sono ascoltati in base all’effettivo gradimento. Se i fan adottano la musica che ascoltano, il progetto continuerà ad essere presente nelle classifiche».

Colasanti pensa invece che la presenza dei numeri visibili al pubblico sia un problema perché «sta creando una cultura della musica sbagliata. Un tempo i risultati numerici di una canzone o di un album interessavano solo alla discografia. Adesso ne discutono fan e giornalisti. Ma siamo sicuri che sia la cosa più interessante di cui parlare? Perché diamo tanto peso ai numeri? Se non fossero visibili, anche chi si occupa di redigere le playlist forse avrebbe molta più libertà. Oggi siamo arrivati al punto di azzoppare un progetto se non ottiene immediatamente un certo numero di stream. Ci sono casi in cui se a mezzanotte non compare nella New Music Friday di Spotify, un brano viene considerato morto. E poi, l’annuncio di tutti questi dischi d’oro o di platino ogni lunedì porta qualcosa? È davvero il segno di un’industria musicale florida?».

Daniel Ek allo Spotify Investor Day del marzo 2018, New York. Foto: Ilya S. Savenok/Getty Images for Spotify

Canzoni come contenuti

Al netto dell’importantissimo discorso sulla distribuzione dei ricavi dello streaming, sulla forbice che separa gli artisti di grande successo dagli altri e sul value gap che oggi riguarda TikTok, l’industria discografica è indubbiamente più florida rispetto a qualche anno fa. Ha recuperato fatturato anche grazie a Spotify e allo streaming, facendo registrare una crescita costante e notevole. Viene però da chiedersi se la cultura dei numeri, la fame di novità e il binge streaming disorder da cui siamo affetti noi italiani siano alla lunga fenomeni positivi a livello di sistema. È vero che questo tipo di ascolto non riguarda tutto lo stream, ma soprattutto il rap. Ed è vero che certi album anche e soprattutto rap (vedi Lazza, Sfera Ebbasta o Marracash) hanno una vita molto più lunga di certe canzoni, nel mercato interno. Però la miscela di hype, competizione e ascolti compulsivi produce un comportamento che facilita il consumo veloce e fluido tipico dell’online.

Spotify favorisce questo modo d’intendere la musica e quindi anche la professione di musicista. Lo ha detto in modo chiaro il CEO e fondatore Daniel Ek nell’estate 2020, facendo arrabbiare molta gente: fare un album ogni tot anni non è più sufficiente, per farcela gli artisti devono coinvolgere in modo continuo i propri fan fornendo di continuo contenuti. «E difatti chi sono i campioni dello streaming in Italia?», chiede Colasanti. «È gente che non s’è fermata mai, che ha pubblicato brani ogni due o tre mesi». Chi smette di produrre è perduto.

Noi italiani siamo diventati bravi ad alimentare e soddisfare questa fame di novità, specie nell’urban. Condividiamo musica con lo stesso furore col quale ci scambiamo e commentiamo le gaffe dei politici in tv o le mattane delle celebrità su Instagram. Trasformate in contenuti digitali come tanti altri, pensate e prodotte come oggetti di consumo istantaneo, le canzoni rischiano di trasformarsi in meme che dopo una settimana non fanno più ridere.

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