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Era mio amico: Glenn Frey degli Eagles visto da Cameron Crowe

Il futuro regista che s’intrufola nel backstage. La prima intervista. Il carattere da eterno adolescente. Le critiche immeritate. Il bello della band. La fine. «Scrivi tutto, basta che ci fai sembrare fighi»

Foto: Gus Stewart/Redferns

È il 1972, in classifica c’è Take It Easy e gli Eagles suonano a San Diego dove lavoro per un giornale underground. Col mio amico e fotografo Gary ci mettiamo in testa d’intrufolarci del backstage ed tirare fuori in qualche modo un’intervista a questa nuova band. Amo le loro armonie vocali e lo stile della loro prima hit.

In concerto la band la presenta Glenn Frey: «Siamo gli Eagles, veniamo dalla California meridionale». Iniziano e sono esplosivi fin dalla versione a cappella di Seven Bridges Road. Pieni d’energia, fanno subito Take It Easy. Non hanno proprio nulla di rilassato. Se ne fregano di tenere la hit per il finale. Sono un gruppo americano giovane e forte nella voce e nell’atteggiamento.

Gary ed ci facciamo strada piuttosto facilmente nel backstage dove incontriamo il road manager degli Eagles. Ci porta in un piccolo camerino dove il batterista e cantante Don Henley, il bassista Randy Meisner e il chitarrista Bernie Leadon ci raccontano la storia della band. Una frase su due inizia con «e poi Glenn…». Frey è l’unico membro del gruppo che non c’è.

Una mezz’ora dopo la porta si apre ed entra Glenn. Ha la tipica spavalderia di chi viene da Detroit, un accento pazzesco e una parlantina degna di un giocatore di baseball appena convocato. È in parte musicista, in parte esperto in tattica, in parte cabarettista.

È subito evidente che è uno che sa dove vuole andare. Ha studiato la storia di altre band, perché si sono sciolte, perché hanno esaurito la creatività. Ha un piano. Usa quella prima intervista per far girare il nome degli amici: Jackson Browne, John David Souther, Jack Tempchin. Ha una risata contagiosa, ti fa venire voglia di entrare nella sua cerchia di amici. A fine intervista chiedo alla band di fare una foto assieme. È ancora oggi uno dei miei scatti preferiti perché cattura quella prima fase, quand’erano liberi e felici. Musicisti che diventeranno famosi per i litigi che si abbracciavano. Lo sguardo di Glenn è impagabile. Dice: questa è la mia band, stiamo per arrivare.

Mi scambio il numero di telefono con Frey, restiamo in contatto, mi coinvolge fin dall’inizio nella realizzazione del secondo album degli Eagles Desperado. Intanto inizio a lavorare più assiduamente come corrispondente per Rolling Stone e lui si lamenta con me perché la rivista e in generale quelli della East Coast dicono che il gruppo fa musica troppo soft e rilassata. Gli Eagles, ai tempi, mi sembrano tante cose, di certo non rilassati.

L’ironia e la saggezza di strada di Glenn colpiscono uno che me, cresciuto senza un fratello. È facile confidarsi con lui, t’aiuta a risolvere i problemi. Una volta m’ha spiegato come far salire l’entusiasmo a una festa («Due birre di fila e poi una ogni ora e un quarto ti rendono loquace, tutte le ragazze vorranno parlare con te»).

Gli chiedevo consigli che avrebbero fatto inorridire mia sorella. Una volta gli ho confidato che mi piaceva una ragazza e che avevo bisogno di un consiglio per farmi avanti. Dovevo forse inventarmi un personaggio? «No!», m’ha detto con un sorriso piratesco. «Non devi recitare, devi essere te stesso». E poi, avvicinandosi: «Se non capisce quel che vali, passa oltre». Era un gran personaggio e quando ho iniziato a scrivere opere di fiction mi sono spesso ispirato a cose che m’ha detto. La frase qua sopra l’ho messa in bocca a Mike Damone in Fast Times at Ridgemont High.

Apprezzava il cameratismo, un fatto evidente ogni qual volta si trovava col suo giro, con gli amici o in sala d’incisione. Quando si trattava di registrare le parti vocali, Glenn e Don erano grandi professionisti, davano indicazioni precise, oltre ad affibbiare soprannomi e sparare truismi degni di John Wooden. Curava la parte finanziaria assieme all’amico e manager di lunga data Irving Azoff. Aveva letto fin troppe biografie di musicisti geniali finiti al verde. Un giorno m’ha preso da parte: «Non m’interessa diventare super ricco, non ho bisogno di una valanga di soldi. Voglio solo un milione per fami una casa e un altro milione da mettere in banca, per vivere di interessi e godermi la vita».

Sei mesi dopo m’ha dato la bella notizia prima di un concerto sold out a Oakland: «Cameron, ricordi quando t’ho detto dei due milioni?». Gli dico di sì. «Li ho fatti. Ora posso dedicarmi a fare i dischi che piacciono a me».

Il suono di quei dischi ha generato decine di hit, ha cambiato il modo in cui vengono gestiti i concerti e il music business, ha ridefinito il country-rock. Non è successo per caso. Glenn era il playmaker. La profonda conoscenza sua e di Henley del mondo dei suoni, dell’R&B e del soul, del country e del rock ha conquistato tre generazioni. Hanno continuato ad avere successo persino durante la pausa di dieci e passa anni iniziata nel 1980.

È una storia raccontata nel documentario del 2013 History of the Eagles. Lì c’è il Glenn Frey che gli amici conoscevano. Divertente. Duro. Cinico. Il custode delle regole. Questi sconsiderati carpetbaggers provenienti dal Texas e da Detroit hanno scritto di Los Angeles con una limpidezza e uno spirito che pochi altri hanno eguagliato nella letteratura, nella musica o nel cinema. L’intellighenzia della East Coast ha continuato a disprezzarli, talvolta persino a deriderli. Frey ha rinunciato a cercare di accontentarli. Ai media piaceva molto di più la storia dei Beach Boys, c’erano Brian Wilson e la mitologia del dolore d’un genio travagliato. Gli Eagles invece avevano Glenn e Don, il consenso di massa, meno scandali e una visione adulta e lucida della California. Erano una squadra vincente a cui non hanno mai perdonato il successo. Ma quel successo, come spiegava Frey, faceva parte del suo piano. «Puoi startene lì nei bassifondi a rimuginare sulle opportunità perdute oppure puoi avere successo tirandoti fuori dai bassifondi».

Frey faceva sembrare il successo una partita a baseball in cui chiunque poteva scendere in campo con lui. Ti affibbiava un soprannome nel giro di mezz’ora. Una volta l’ho fatto ridere con un’imitazione dell’MC di James Brown (“Ladies and gentlemen, it is star time tonight…”) e dal quel momento sono diventato Get Down Clown. Lui e Henley sapevano come affascinare le donne con le buone maniere. Era il Teen King. Grazie alla sua abilità nel costruire le armonie vocali degli Eagles, era anche il Loner Arranger e una volta, dopo aver raccolto un bidone della spazzatura pieno di erba nel suo cortile, è diventato Roach. Don Felder era Fingers. Due gli altri membri della band avevano una collezione psichedelica di soprannomi in costante evoluzione, ciascuno con significati profondi e vorticosi. Li ho dimenticati quasi tutti, non Glenn che li ricodava.

Quando sono andato a stare per un paio di settimane con lui e Henley mentre stavano scrivendo l’album One of These Nights, abbiamo parlato di vita, amore e musica per intere giornate. Li ho visti mettere le loro avventure notturne nelle canzoni. Passavano intere ore a discutere di una singola parola di Lyin’ Eyes o One of These Nights.

A un certo punto Glenn mi ha preso da parte. Abbiamo fatto la chiacchierata che ho messo tale e quale in Almost Famous, quando William viene pregato di lasciare delle cose off the record. Alla fine Glenn ha capitolato. «Mettici tutto nell’articolo». E sorridendo: «Basta che ci fai sembrare fighi».

In Jerry Maguire Glenn fa la parte di Dennis Wilburn, il direttore generale degli Arizona Cardinals. Avevo provinato vari attori per la parte, ma per qualche motivo avevano tutti dei problemi nella scena in cui se la dovevano pendere col personaggio di Tom Cruise, che allora era al suo punto più basso. Erano intimiditi dalla prospettiva di dire battute forti a una tale superstar. Non, Glenn che si divertì a rompere le palle a Cruise come bambino al campo estivo. Era un attore eccellente, amico della troupe, il capitano della squadra che potevi chiamare a tarda notte. Ed era rimasto il Teen King, pieno d’entusiasmo e senso dell’umorismo.

Dopo l’incredibile successo di critica e commerciale del capolavoro della band, Hotel California, anche Glenn è diventato padre con la stessa verve che aveva da ragazzo, quando aveva guidato dal Michigan a Laurel Canyon, aveva incontrato David Crosby il primo giorno e non si era più guardato indietro.

Ai fan che lo rimpiangono, dico una cosa semplice: fatevi una Budweiser e mettete su un po’ di soul. Un pezzo con un cantante pazzesco, tipo I’ve Been Born Again di Johnnie Taylor. O la canzone che a Glenn piaceva fami sentire andando su e giù per il Sunset Boulevard, studiandone ogni dettaglio: Get Off in It di Eddie Hinton.

Un’ultima cosa. Quando lavoravo alla serie Roadies volevo che Glenn interpretasse il manager bravo ma volubile della band, Preston. Quel che mi fu risposto mi ha sconvolto: Frey era in un brutto stato, lottava ricoverato in ospedale. Ho cercato di non preoccuparmi troppo. Glenn Frey è, ed è sempre stato, uno da vittoria all’ultimo minuto. L’ultima volta che l’ho visto è stato in estate. Gli ho detto che volevo che tornasse a recitae. L’idea lo entusiasmava. «Ho un’idea per uno show televisivo», mi diceva. «Kauai Five-0. Faccio la parte del poliziotto più duro delle Hawaii e vivo a Kauai. E in bassa stagione…». Ecco di nuovo il sorriso da pirata. «In bassa stagione posso suonare con gli Eagles. È una bella vita, no?».

Da Rolling Stone US.

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