Rolling Stone Italia

Estetica e mistica della diva Callas

La mostra ‘Fantasmagoria Callas’, Alvin Curran, Francesco Vezzoli: un giro alla Scala di Milano e due interviste per parlare a ruota libera di miti, contemporaneità, istituzioni polverose, glamour e pop

Foto press

Entri sempre un po’ circospetto negli spazi della Scala, a Milano: sai di essere in un centro di potere sia culturale che sociale e politico con pochi eguali in Italia. Al di là delle opere e dei concerti, infatti, il suo potere simbolico e politico (politico nel senso più ampio del termine) è enorme; ed è confermato dalla pioggia di contributi, sia pubblici che privati, che le finiscono in bilancio: parliamo di decine e decine di milioni di euro annui. Pioggia che basterebbe a tenere in piedi venti festival rock o elettronici di rilevanza mondiale in Italia, altro che un ente solo. E forse è (anche) per questo che lo senti come un luogo se non proprio nemico almeno tanto, tanto distante (oltre al fatto che fai fatica a immaginarti il Presidente della Repubblica che viene a sentire uno show degli Idles o un dj set di Peggy Gou a qualche festival romano o torinese).

Ecco: Fantasmagoria Callas, una mostra multidisciplinare su Maria Callas che sarà negli spazi del teatro fino al 30 aprile 2024 e che è il motivo per cui siamo finiti qui da invitati, per certi versi è uno strano colpo obliquo a questa estetica e mistica. Perché sì, c’è la Callas, prevedibile icona delle icone, che proprio dentro il teatro milanese ha costruito una parte molto consistente della sua leggenda; ci sono gli sponsor illustri di alto profilo ad appoggiare l’operazione; c’è lo stato maggiore del teatro al gran completo alla sua presentazione, a partire dal sovrintendente Dominique Meyer; c’è tutto insomma. Tutto quello che ti aspetteresti. Però proprio quando ti immagini la solita retorica e polverosa celebrazione, i soliti luoghi comuni, ti rendi conto che quanto è stato messo su dal curatore della mostra, Francesco Stocchi, è qualcosa che i luoghi comuni li prende discretamente a sassate – fingendo astutamente di non farlo, fingendo invece di blandirli e celebrarli.

È furbo, Stocchi, oltre ad essere bravo; nominato nel 2023 direttore artistico del MAXXI – il museo romano di arte contemporanea campo di battaglia per eccellenza dello spoil system all’italiana, in altri anni visto infatti come feudo e mostrina del PD e della Melandri – non è certo uno che si è fatto traghettare senza meriti dal nuovo vento meloniano, nel campo culturale. Si è fatto invece le ossa dirigendo & disponendo in contesti molto prestigiosi e meritocratici come il Boijmans Van Beuningen di Rotterdam; non scontati come la Biennale Arte nella brasiliana San Paolo; tradizionalmente manciacalmente neutri come il padiglione della Svizzera nel contesto della Biennale Arte di Venezia. Insomma: non un raccomandato, ma una persona di mondo. Con lo sguardo bello aperto. Quasi non ci si è più abituati, vero?

E infatti succede che Fantasmagoria Callas, piccola mostra multiforme, ospita sì l’icona Giorgio Armani – il vero papa laico della Milano degli ultimi decenni – e qui ok, siamo nel campo del prevedibile e dell’inevitabile: Armani veste/interpreta Callas, cosa di più prevedibile da schiaffare in una mostra sulla Callas alla milanese Scala? Ma in realtà questa Fantasmagoria chiama in causa anche Mario Martone, non il più allineato e tradizionalista dei registi teatrali e cinematografici; così come l’artista relativamente giovane e relativamente emergente Latifa Echakch; o ancora quel personaggio bizzarro di Alvin Curran, giocoso compositore americano di musica contemporanea del tutto a-salottiera e anti-accademica, da decenni di stanza in Italia; e infine Francesco Vezzoli, uno strepitoso artista pop, e qui pop va inteso nel senso più nobile, corrosivo e combattivo del termine: tant’è che pur avendo un curriculum semplicemente pazzesco tra esposizioni e collaborazioni, parliamo proprio di eccellenza mondiale, qualcosa che va da strette collaborazioni con Lady Gaga ad esposizioni al MOMA e alla Tate, in Italia non lo si cita quasi mai, o almeno non quanto si potrebbe e, probabilmente, dovrebbe. Il pop da noi deve essere noioso e prevedibile, e rispettoso dell’ordine costituito più collaudato. Vezzoli, non lo è. Ma a parecchie icone del pop globale dà del tu. Molto più e molto meglio di Amadeus o, ehm, Sgarbi.

Foto: Giovanni Hanninen

Il risultato di questa Fantasmagoria è, come dire?, agile. Felicemente agile. Non retorico, cioè. Vale la pena salire le scalinate che portano fino alla mostra negli spazi secondari della Scala, fateci un salto: perché la figura di Maria Callas viene da un lato rispettata, dall’altro però felicemente de-retoricizzata, e tutto questo in pochi semplici atti, in poche efficaci opere. La conseguenza? Si capisce probabilmente meglio la figura della cantante greca nelle poche opere esposte in Fantasmagoria Callas che in mille celebrazioni enfatiche e magniloquenti, quelle con fanfare, autorità, diademi e auto blu. Onestamente: tutto questo è qualcosa che non ti aspetti. Perché soprattutto se vivi a Milano e/o ti occupi di musica, la Scala ti pare quel Moloch impossibilitato a non essere salotto paludato, e a non essere potere tradizionalista e profondamente anti-pop(olare). Lo deve essere per forza, no? E invece…

«In Italia in effetti succedono cose strane: tipo la mia presenza qui», ridacchia Alvin Curran, con cui ci beviamo un caffè dopo la conferenza stampa ufficiale di presentazione. Solo in Italia, Alvin? «Ma sai che sì? Solo in Italia ci sono certi cortocircuiti. Contesti culturali come Germania, Svezia, Francia sono molto più prevedibili, molto più irreggimentati. Non so, sarà che io vivo in Italia da quando sono adulto ma non ho mai perso il mio piglio da americano, da stupido americano ignorante, e quindi continuo a meravigliarmi e a sorprendermi per molte cose…».

Quando proviamo a controbattere a Curran che, insomma, la cultura ufficiale alta in Italia è invece un sacco paludata e ostaggio di dinamiche vecchie, e pure quella nazionalpopolare dopo decenni di televisione e berlusconismo non è che se la passi granché bene, quindi abbiamo poco da bullarci e gonfiare il petto, lui ribatte: «È vero quello che dici, hai ragione. Ma è altrettanto vero che pochi altri paesi al mondo, forse nessuno, sono seduti sulla storia come l’Italia; e questa cosa emerge, in qualche modo emerge sempre, si fa sentire. Anche nel qui & ora, anche nelle manifestazioni più buffe e sgraziate della contemporaneità… In più da voi c’è in ogni contesto un culto della bellezza che altrove, semplicemente, non c’è. Ed è qualcosa che aiuta a viversi meglio la contemporaneità, la nobilita». Mmmmh.

«Ti faccio un esempio molto concreto: tutti i miei musicisti italiani preferiti da ragazzo, i miei modelli, penso a compositori di classica contemporanea come Luigi Nono, Luciano Berio e Bruno Maderna, pur essendo radicalmente sperimentali e destrutturanti – e accidenti se lo sono – mantenevano sempre un certo liricismo, una certe musicalità, un certo senso di bellezza. Qualcosa che in un Boulez o in uno Stockhausen comunque non si trovava, non aveva spazio. Anche prendendo esempi più estremi, penso a Giuseppe Chiari, un dadaista pazzo, c’era sempre non solo la mera provocazione e la sfida, ma anche la poesia. È proprio un vostro tratto caratteristico, questo. Non è un caso che tutti gli stranieri a un certo punto vogliano vivere in Italia». Sì, ma… «So cosa stai per dire: tutti gli stranieri vogliono venire a vivere in Italia, ma tutti gli italiani che valgono vogliono andare via, New York, Berlino». Ecco, sì: grazie per avermi anticipato. «Che dire? Viviamo nelle contraddizioni: è il segno dei nostri tempi. Ma qualcosa di speciale, in Italia, c’è. Fidati».

Foto: Giovanni Hanninen

Di sicuro è speciale la presenza di Curran alla Scala. «Anche se sono completamente dedito alla musica contemporanea e non alla classica propriamente detta, quella storica, non è che non mi capiti di tornare al passato: io e mia moglie più volte ci mettiamo insieme al pianoforte e, a quattro mani, suoniamo Mozart o Beethoven per il puro piacere di farlo. E siamo consapevoli che queste sono le radici della nostra musica, della nostra cultura. Ma in generale io vivo sempre nell’assurdo e convinto tentativo di essere sempre iper-contemporaneo, di cercare sempre le sfide più taglienti dal punto di vista artistico nel campo della musica. Vivo nel presente. Vivo nel fatto che arrivando qui a questa conferenza stampa, attraversando a piedi il centro della città, sento il rumore del tram che passa, di una macchina che suona, di un portone che si chiude: e immediatamente nella mia testa cerco di capire come questo possa diventare nuova musica. Questo sono io, capisci? Quindi sì, diciamo che Maria Callas mi è capitata davanti un po’ a sorpresa…».

Proprio a sorpresa? «Mai avrei immaginato di essere chiamato alla Scala, per giunta su una operazione su Maria Callas. Mai. È stata però una benedizione: arrivata questa committenza, ho iniziato a studiare. Ho iniziato ad ascoltarla, la Callas. Con attenzione. E ho capito subito che da una singola sua nota si poteva estrarre un mondo. E così ho fatto, così nasce l’installazione sonora preparata per questa Fantasmagoria. È diventata una sfida concettuale, giocata – naturalmente a modo mio – con l’aiuto della tecnologia digitale». Un modo, il tuo, che difficilmente trova spazio nei salotti buoni della musica classica più tradizionale. «Vero. Ma ogni tanto i salotti buoni si dicono che devono aggiornarsi un po’, fare qualcosa di un minimo attuale: e allora arrivano a me. Poi che per me il mondo non si fermi mai, che non debba essere musealizzazione, che per me il suono estratto da una conchiglia possa valere tanto quanto la voce della Callas, diciamo che è una cosa che corre parallela, ed evidentemente però non disturba, o in questo caso non disturba. Io non posso che ricordare che tutti i grandi classici – Beethoven, Mozart, Bach, chi vuoi tu – nel momento in cui sono diventati conosciuti stavano facendo non musica del passato, no!, ma musica per il qui & ora. Erano insomma profondamente focalizzati sul presente; e spesso in maniera progressista, non conservatrice, visto che la loro musica era sempre di più adottata e incoraggiata dalla crescente borghesia industriale più ancora che dalle corti. Oggi invece i compositori contemporanei, come il sottoscritto e moltissimi altri miei colleghi, sono solo una nicchia della nicchia, una residuale nicchia della nicchia. Non fa riflettere questa cosa?». In effetti. «Eh. Non fa riflettere che, contrariamente al passato, i budget siano utilizzati al 90% per materiale vecchio di decenni se non secoli, e solo il 10% invece per ciò che è contemporaneo? Che poi ogni tanto persone che stanno dentro una istituzione come la Scala spariglino le carte e chiamino uno come me in una loro operazione non può che essere sano: le contraddizioni aiutano a sprigionare energie. Se positive o negative, difficile saperlo prima; ma almeno sono energie».

Foto: Giovanni Hanninen

«Ti prego, di’ di me cose terribili…»: inizia così invece la conversazione con Francesco Vezzoli, l’altra chiacchierata che abbiamo voluto procurarci a margine della conferenza stampa di presentazione della mostra. Gli piace un sacco non dover più essere sulla tavolata ufficiale della conferenza stampa con tutte le autorità, a Vezzoli, ma avere davanti un tizio che scrive per Rolling Stone (e con cui salta fuori subito che si hanno un po’ di amici in comune, quindi scatta immediata la famigliarità). «Litighiamo, ti prego. Urliamo. Facciamo qualcosa di eclatante, dai». Dobbiamo? «Sarebbe un bellissimo omaggio alla Callas…». Dici? «Hai presente tipo quando se ne andrò via dall’Opera di Roma, col Presidente della Repubblica presente in sala? Ecco! Lei era così».

Non litigheremo, Francesco, no. Ma non posso che iniziare chiedendoti, e il modo in cui ti sei posto con me non fa che rendere più necessaria questa domanda: che ci fai tu qua? Come mai ti hanno coinvolto? Sei un personaggio a suo modo enorme, ma immaginarti accostato alla Scala… «È strano, vero? Lo è anche per me: confermo». Una pausa, e poi Vezzoli continua: «Mi fa tenerezza tutto questo, in realtà. Perché mi hanno cercato per chiedermi di presentare una delle mie vecchia opere: una che ha, ormai, 25 anni o giù di lì. Di tutta la mia serie di ricami dedicati ad icone del pop, quello dedicato alla Callas era effettivamente il più grande. Ma il punto è che tutta quella serie di lavori di ricamo era nata, all’epoca, proprio come gesto quasi sandinista nei confronti del mondo dell’arte, delle sue enclave; ritrovarmi con uno di essi, anzi, con il più significativo, proprio negli spazi di un posto come la Scala mi fa, ecco, tenerezza».

Tenerezza? «Sì, sai. Io mi ero quasi dimenticato di questa opera. Che invece fu importante, l’avevo creata appunto con un certo tipo di valenza, venni addirittura chiamato in Ohio a parlarne assieme a Wayne Koestenbaum, biografo di Andy Warhol e autore anche di un volume come The Queen’s Throat dove si parla del rapporto tra mondo dell’opera ed omosessualità, in una conferenza devo dire abbastanza surreale…». E ora invece eccoci qua, alla Scala, molti anni più tardi. «Comunque, anche nella conferenza stampa che c’è appena stata avrai notato che ho abbastanza dribblato il fuoco della questione…». Vero. «L’argomento-Callas è veramente troppo complesso per essere trattato in pochi minuti su un tavolo pieno di autorità».

Ok. Proviamo però a riassumerlo, visto che saremmo qui per questo? Come la vedi? «Dici? Non so, proviamo. Posso dire che Maria Callas ha costruito attorno a sé una mitologia. Aveva un dono ben preciso che solo le più grandi artiste hanno, da Gloria Swanson a Madonna, che poi è il dono che fa esplodere le mitologie, dà loro veramente modo di crearsi: l’unire a una grandissima tecnica una grandissima vanità. Le due cose prese singolarmente fanno effetto fino a un certo punto; quando invece vanno di pari passo, ecco, lì si crea il mito».

E tu Vezzoli coi miti ci lavori: figurativamente, in alcune tue performance ed opere d’arte; e anche concretamente, a scorrere l’elenco di collaborazioni illustri. Non deve essere facile. Anche perché ti caratterizza sempre un tocco sottilmente ironico, sarcastico: tutto questo affrontando o stando in un contesto, quello del grande pop e del mito, che è invece è tutto tranne che sottile e ironico, è semmai molto facilmente crasso e retorico. «Ma come fai a non essere ironico e ogni tanto pure sarcastico? Se non lo sei, fai una brutta fine. Guarda, ti faccio un esempio: quando ho avuto a che fare con Hollywood ero sì a contatto con gli attori, ma purtroppo anche con i loro management. Un giorno mi arriva una telefonata da un tizio inviperito, era uno degli avvocati che rappresentava Benicio Del Toro: “Lei ci ha imbrogliato, l’opera in cui ha coinvolto il mio assistito non è nel programma della Biennale di Venezia, come invece ha sostenuto per convincerci ad accettare. La denunciamo”. “Come, scusi?”. “Ho il programma davanti: noi non ci siamo! Lei ci aveva garantito che ci saremmo stati, solo per questo abbiamo accettato di collaborare con lei”. “Ma lei ha davanti il programma della Biennale Arte, in questo momento?”. “Arte? Quale arte? Stiamo parlando di Venezia, e lì l’unica Biennale è quella del Cinema”. “Ah. Guardi, dopo questa sua affermazione non so cosa risponderle: per me la conversazione finisce quindi qui. Mi faccia pure causa, grazie”. Capisci? Capisci a cosa vai incontro?».

Capisco sì, e capisco anche che tu Francesco Vezzoli non sei uno che indulge nella diplomazia strategica. Tanto che viene da dire e da chiederti: come mai sei ancora così quotato, nei giri che contano del pop globale? «Perché hanno tutti bisogno di uno psicanalista, immagino. Bene, faccio io per loro». Ah. Lo psicanalista un po’ stronzo, però. «Se è troppo buono non serve a un cazzo, no? Lo psicanalista deve essere cattivo! Anche perché comunque il divismo è una maledizione di per sé, chi lo vive lo sa: è in fondo troppo spesso una questione di solitudini ed oppiacei. Di gente che muore da sola imbottita di antidolorifici e psicofarmaci».

Una pausa, e poi Vezzoli riprende: «Mi ricordo però una intervista molto bella che feci anni ed anni fa per Interview, in cui facevo conversare tra di loro Miuccia Prada e Rem Koolhaas. A un certo punto Koolhaas se ne viene fuori dicendo che il divismo ormai è una faccenda finita. “Caro Rem, ti stimo più del padreterno, ma non sono convinto che il mondo vada in questa direzione…”, gli si risponde… E guarda caso sono poi arrivati i social: che non sono nemmeno la reinvenzione del glamour. No, sono proprio la loro esponenzialità. Il pop e il glamour sono diventati, molto più di prima, i pilastri della cultura contemporanea. In una situazione così, ci sarebbe bisogno di nuovi Roland Barthes; invece ce ne sono sempre di meno. Proprio in Italia ci sarebbero tantissimi spunti – ecco, Belpoliti con Il corpo del capo ha fatto un lavoro molto interessante – perché di nostro siamo una nazione molto orientata all’iconicità, ad un certo tipo di estetica. Tutto nasce dalla religione, qui: io non ho il dono della fede, come avrebbe detto Betty Curtis, ma è alla religione che siamo debitori di Raffaello, Caravaggio, delle Cappelle Sistine… Siamo il Paese più instagrammabile del mondo, pensaci. E in più, se a chiunque chiedi chi è l’icona dell’arte per eccellenza, molto facilmente che ti rispondono? La Gioconda, ti rispondono. Che guarda caso è un quadro italiano».

Foto: Giovanni Hanninen

Ritornando sulla Callas e sulla mostra in sé, il discorso si sposta su Milano. «Quando Milano ha creato il mito della Callas come città non contava quasi nulla. Oggi invece è uno dei primi cinque posti nel mondo dove la gente vorrebbe venire a vivere. Eppure, oggi più che mai mancano delle situazioni stimolanti dove persone di peso si sappiano confrontare in modo sistematico: non per mondanità o vanità, ma per cercare una evoluzione e una crescita collettiva. Questo è paradossale. Chi è arrivato a certi livelli, tranne rare eccezioni, oggi pare più occupato a farsi i complimenti a vicenda. Ci si è adeguati a quello che in fondo è una parte dello spirito di questa nazione, una nazione intrisa appunto di tradizione artistica e di bellezza».

Qui pare quasi che Vezzoli e Curran si siano messi d’accordo per dire la stessa cosa: non è così. «Ma questa tradizione artistica e questa propensione alla bellezza fa anche sì che tutto entri molto facilmente in un vago senso di decadenza, di operetta, di vanità: guarda per dire la nostra classe politica. Nella nostra nazione è tutto, in qualche modo, sempre tizianesco. Invece, quando raggiungi un minimo di successo nel tuo campo dovresti essere portato a confrontarti con persone che sappiano sfidarti, stimolarti, e che arrivino da altre discipline artistiche o professionali, per rendere ancora più interessante la cosa. Ecco, voi di Rolling dovreste fare più salotti: dovreste mettere insieme delle situazioni in cui da un lato c’è Tedua, per dire, e dall’altro…». Dall’altro un artista tipo te? «Ma magari! Di sicuro io da Tedua avrei molto da imparare».

Siamo alla Scala. In una conferenza stampa mattutina piena zeppa di autorità. Ehi: partendo dalla Callas, siamo arrivati a parlare di Tedua. Non male. Abbastanza divertente, tutto questo. «Ma è fondamentale, sapersi divertire. È la prima cosa che bisogna saper fare: prima dell’opera d’arte, prima della strategia promozionale. Perché ricrearsi una routine che non ti opprima e ti soddisfi è molto più difficile che essere un grande, grandissimo artista». Ritratta nei ricami di Vezzoli, la Callas dà l’aria di guardarci – e di approvare. Se la vera Fantasmagoria fosse proprio questa?

Iscriviti