Sarebbe facile trattare Everybody’s Everything, il doloroso e intimo documentario su Lil Peep, come un prodotto solo per fan – ovvero chiunque abbia ascoltato canzoni come U Said e Crybaby ritrovando in esse i suoi monologhi interiori. E sì, i fan irriducibili si ritroveranno a soffrire, se non addirittura a piangere di fronte ai filmati casalinghi del rapper, ai dietro le quinte, all’ascesa e alla caduta del loro idolo. Vi piacerebbe vedere l’emo-rapper mentre fa saltare il pubblico durante una performance di Beamer Boy a Tucson, Arizona, oppure mentre cazzeggia con la Gothboiclique nel suo loft di L.A. o percorrere una passerella durante la fashion week di Londra? Non resterete delusi.
Ma quello di Sebastian Jones e Ramen Silyan è il ritratto di un artista con i nervi a fior di pelle, un film senz’altro più adatto a chi conosce Lil Peep solo attraverso i titoli dei giornali. Chi non ha alcun legame con la sua musica o con il suo status di voce sensibile di una generazione riuscirà grazie al film a conoscere Gustav Ahr (Gus per gli amici e familiari). Capiranno perché così tante persone si sono immediatamente ritrovate a orbitare attorno al suo alter ego, un personaggio allo stesso tempo indistruttibile e a un passo dal tracollo emotivo a causa della sua vulnerabilità. È un ‘in memoriam’ che spiega perché il successo del 21enne non era affatto casuale. Guardate il video in cui suona Witchblades sul palco. Non è cosa dice nel primo ritornello, ma il modo in cui strilla – “Switchblades, co-caiiiine” – che vi farà venire la pelle d’oca. Il ragazzo emana carisma anche mentre mostra a tutti il suo cuore spezzato. Non importa se amate o detestate i tatuaggi sul viso, i beat scarni trap e i testi da diario del liceo, è impossibile guardarlo cantare e non pensare: wow, chi è questo tizio?
La risposta? Era un bimbo felice, un ragazzino emotivamente distaccato segnato dal divorzio dei genitori, un teenager ribelle. Era figlio, fratello e nipote. (I registi danno grande spazio alla mamma e alla nonna di Gus, ma la menzione d’onore va al nonno, l’attivista e storico John Womack. Le scene con le sue digressioni – “Le ferite che ti ha inferto tuo padre non sono guarite… vedo che in te c’è puro oro” – mostrano chiaramente l’influenza dell’amico di famiglia/produttore esecutivo Terrence Malick). Lil Peep era una dinamo creativa che aveva trovato una valvola di sfogo, uno scopo, una comunità e la salvezza nell’hip hop underground. In poco tempo, molta gente ha trovato la stessa salvezza nella sua musica ed è qui che sono iniziati i guai. Uno degli aspetti più deprimenti di Everybody’s Everything sta nell’enorme somiglianza tra la storia di Gus e quella tipica delle rockstar: un’infanzia idilliaca prende la piega sbagliata, il successo porta notorietà e molti nuovi ‘amici’ pronti ad approfittarsene, la corona da next gig thing vacilla, la pressione porta all’abuso di droga per anestetizzarsi dal dolore e infine alla tragedia. Rispetto alle storie rock, cambiano i nomi e i tagli di capelli.
Ma sono i particolari, qui presentati in frammenti brevi, che vi spezzeranno il cuore. È faticoso vedere le foto di quel bambino biondo che sorride e poi scoprire la sua versione cresciuta ingabbiata in dolori esistenziali o, ancora peggio, completamente strafatta. Il film mostra i momenti trionfali della carriera di Lil Peep, ma vi farà vedere anche momenti come lo showcase di maggio 2017 a Los Angeles. Gus aveva esagerato con una o più sostanze illecite e nessuno sapeva se fosse in grado di continuare. Quando Peep sale sul palco, biascica i testi e sembra un fantasma. Si riprende nel mezzo di una canzone e riesce in qualche modo a finire il set. I suoi collaboratori raccontano che all’epoca si nascondeva in un armadio per piangere, perché la sua camera da letto era sempre piena di gente. I segnali c’erano tutti, anche prima che pubblicasse su Instagram un post in cui diceva che stava per crollare sotto il peso di essere “everybody’s everything”. Il giorno successivo morirà per overdose di Xanax e Fentanyl.
Sì, il film è tetro ma, proprio come accade con la musica di Peep, è anche catartico. Jones e Silyan sono riusciti a girare un film che somiglia al greatest hits di Peep, un’opera in cui le ferite in qualche modo danno origine a sensazioni esaltanti, a uno strano senso di elevazione. Anche il montaggio in stile collage sembra azzeccato. E nonostante più o meno tutti in Everybody’s Everything parlino di Peep come se fosse in odore di santità, un ragazzo distrutto dalla popolarità, il documentario non dimentica mai che dietro al personaggio e ai tatuaggi sul volto c’era un essere umano. Forse guardare il film non vi convertirà alla sua musica, ma di certo vi farà sentire la mancanza di Lil Peep.