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‘Face It Alone’ dei Queen è un piccolo ‘Miracle’ di angoscia

La canzone emersa dalle session dell'album dell'89 non è un inno da cantare in coro, ma uno dei pezzi più mesti del gruppo: tristezza senza riscatto, solitudine senza speranza. E va bene così

Foto press

È il 1988. I Queen si sono ritrovati da poco dopo una pausa di un paio d’anni successiva allo straordinario successo del Magic Tour. Freddie Mercury è reduce dal secondo album solista, un azzardo di magniloquenza e grandeur in compagnia di Montserrat Caballé, Roger Taylor ha dato da poco alle stampe il debutto del side project The Cross e Brian May è alle prese con la scrittura dei brani che dovrebbero comporre il suo primo lavoro in solitaria. Solo John Deacon si è limitato a qualche collaborazione e alla tanto amata vita privata.

Insomma, quando i quattro si ritrovano in studio per dare un seguito a A Kind of Magic, la voglia di tornare a lavorare insieme ha raggiunto livelli che la band non vedeva da tempo, forse dai tempi di News of the World. La malattia di Mercury non è più un segreto e la condivisione della notizia non fa che aggiungere alchimia e solidarietà a un gruppo insieme ormai da quasi vent’anni, ma all’interno del quale gli scontri e le liti non erano mai mancati.

È in questo clima a metà tra entusiasmo e dolore, tra luci ed ombre per dirla alla Jimmy Page, che vede la luce The Miracle, una delle opere più amate in assoluto dai fan dei Queen. La ritrovata vena compositiva ha l’effetto immediato di portare alla creazione di molti più brani del necessario, un’anomalia per un gruppo sì prolifico in termini di dischi pubblicati, ma raramente capace di comporre molti più brani del necessario. Eppure, in The Miracle le ombre sono all’apparenza quasi del tutto assenti. Al contrario, forse proprio per non dare adito alle tante voci che circolavano intorno alla salute del frontman, il tredicesimo album da studio dei Queen risulterà come uno dei più duri ed energici di sempre. Quasi a voler nascondere sotto il tappeto l’angoscia dovuta alla consapevolezza di avere in qualche modo i giorni contati.

Come sappiamo, alcune delle composizioni lasciate fuori dal disco sarebbero finite poi su Innuendo, altre vennero usate come lati B, mentre le restanti finirono per riempire gli archivi della band, alimentando la fantasia sfrenata dei fan circa una manciata di gemme che avrebbero potuto trasformare The Miracle nell’opera più variegata mai realizzata dal gruppo. Non è dunque un caso che fin dagli albori dell’epoca del peer to peer, proprio quei brani parcheggiati in attesa di pubblicazione siano stati tra i più ricercati e diffusi in assoluto. E qui veniamo alla pubblicazione di Face It Alone, annunciato in estate da May e Taylor e primo assaggio di un box set retrospettivo che, negli intenti della Queen Production, dovrebbe finalmente riuscire a dare un quadro completo delle session di 33 anni fa.

L’effetto al primo ascolto è decisamente straniante: il brano ha così poco a che spartire col repertorio della band che riesce difficile immaginarlo all’interno di qualunque album della discografia. Una cosa non da poco per un gruppo abituato a cambiare sound di continuo. L’aspetto più sorprendente sta nella profonda cupezza di Face It Alone. Pochissime volte, vengono in mente forse solo Mother Love, All Dead, All Dead e la B side Lost Opportunity, la band si era inoltrata in territori così impervi dal punto di vista emotivo. Anche brani come I’m Going Slighty Mad o The Show Must Go On, seppur intrisi di pathos e dai temi angosciosi, mostravano comunque quella voglia di vivere e di scuotere il pubblico, che qui è completamente assente. In Face It Alone c’è solo dolore, senza alcun tipo di spiraglio per la speranza.

A maggior ragione, viene davvero da pensare che la band temesse che The Miracle potesse essere l’ultimo capitolo della propria storia e Face It Alone uno dei pochi momenti i cui l’angoscia era riuscita ad avere la meglio su tutto il resto, con la voce di Mercury a svettare sui compagni lungo tutta la durata del brano e un assolo straziante di May a sottolinearne il senso di sommessa rassegnazione. Una sorta di unicum di cui risulta difficile ipotizzare l’autore: per la prima volta, infatti, i Queen avevano deciso di firmare i brani a nome dell’intera band, lasciando da parte ego e discussioni. Tuttavia, il sospetto che dietro alla composizione ci sia la mano di Brian May è elevata. Tutti i brani citati in precedenza, con l’esclusione di Slighty Mad e Mother Love (di cui comunque fu co-autore), erano stati scritti infatti dal chitarrista. Vale anche per quella The Show Must Go On che chiunque, prima di conoscerne la genesi, credeva rappresentasse il testamento spirituale di Mercury. Il sospetto si fa quasi prova se pensiamo al suo contributo generale all’album, in cui finirono per convergere alcuni dei brani su cui era al lavoro per il proprio disco di debutto.

Era dal 2014 che i Queen non rendevano pubblico un brano inedito cantato dal vecchio compagno. Ai tempi, i riscontri furono tiepidi e il pubblico si scordò presto dei brani. D’altra parte, prima del biopic sulla vita di Freddie, la fan base mondiale preferiva ancora ricordarne lo spirito sui dischi registrati in vita. Oggi le cose andranno in modo diverso, anche se questa volta non ci sarà nessun sussulto in grado di scuoterci e nessun inno da cantare a squarciagola. In fin dei conti, i Queen sapevano anche toccare le parti più oscure della nostra anima, quando decidevano di farlo.

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