C’è questa storiella su Bob Dylan che gira in varie versioni. Autentica o apocrifa che sia, racconta d’un fan che s’avvicina trepidante al suo idolo. Stiamo parlando di Dylan, uno degli artisti rock più mitizzati della storia, uno che ha attirato attenzioni morbose, ispezioni dei bidoni della spazzatura, studi matti d’ogni parola che ha cantato. Il fan s’avvicina e gli dice quanto ama la sua musica. Dylan lo liquida così: «D’accordo, ma io non vengo a raccontarti i miei problemi».
Il Dylan di quest’aneddoto sarà pure un bastardo, ma voi avete un problema con gli artisti: pensate che vi debbano qualcosa. E v’infiammate, v’inalberate, v’indignate ogni volta che uno di loro dice no a un fan o presunto tale. «Ma come si permette, non lo sa che deve tutto al pubblico? Senza di noi non sarebbe nessuno». A forza di sentirvi ripetere la scemenza dello spettatore che è sovrano e dell’artista che è al servizio della gente avete cominciato a crederci, fino a sentirvi padroni del tempo e degli spazi altrui.
Immagino che quest’opinione non risulterà particolarmente popolare dopo che Bad Bunny in un eccesso di zarroganza ha lanciato chissà dove lo smartphone d’una ragazza che pretendeva di farsi un selfie o un video con lui, ma l’atteggiamento che porta a trattare un cantante come una cera di Madame Tussauds con cui farsi la foto è sbagliato. Non è solo una questione d’educazione, di come dovrebbero essere i rapporti fra persone che s’incontrano per strada e non si conoscono. È frutto d’un culto scemo della celebrità, di una falsa sensazione d’intimità e forse anche il simbolo di ciò che è andato storto nel cosiddetto fandom.
Ho la sensazione che alcune (molte?) delle persone che chiedono foto a piccole e grandi celebrità lo facciano senza alcuna passione reale, ma solo perché lo fanno tutti, perché hanno un telefono, perché sì. I più fessi non sono neppure certi di chi sia la persona con cui si vogliono mettere in posa. Davvero, c’è gente che vuole a tutti i costi uno scatto con, chessò, Cristiano Godano pensando che sia Manuel Agnelli, e viceversa. Le cose sono evidentemente peggiorate da quando abbiamo tutti non solo un telefono dotato di fotocamera, ma anche vari social su cui documentare i nostri invidiabili (si fa per dire) incontri. È la fabbrica dei selfie e produce mostriciattoli.
Che gli dici a uno che s’avvicina e chiede «scusa, tu sei famoso, ci facciamo una foto»? O a uno che senza salutarti ti piazza il telefono in faccia e dice «amici, guardate con chi sono»? Nella migliore delle ipotesi cerchi di divertirti, come i cantanti che, scambiati per i loro colleghi, ne firmano i dischi facendo finta di niente (sì, accade). Se per caso ti lamenti sui social dell’esistenza di questi cacciatori decerebrati di selfie piovono insulti. È successo un anno e mezzo fa a Madame che non pretendeva il patentino di fan per concedere una foto al ristorante, ma giusto un livello base d’educazione e rispetto dovuti a una persona, che non è un cartonato con su scritto “celebrità generica, mettersi in fila per le foto, grazie”.
Ma poi, che ve ne fate di questi selfie, che non sono il ricordo d’un momento significativo vissuto assieme, ma quel che resta d’uno scambio fugace? Li affidate alla gloria del cloud? Li guardate di tanto in tanto sospirando e ripensando alla volta in cui avete incontrato per cinque secondi quel cantante lì che è stato a Sanremo, o forse è uscito da Maria De Filippi, comunque è uno famoso, eh? Li pubblicate in serie su Facebook o Instagram pensando che gli amici ne siano impressionati, quando invece pensano «merda, conosco uno stalker»? Visto che nessuno ve lo dice, m’incarico io di spiegarvi che dopo la quinta foto con celebrità che postate entrate nella terra del disagio di Fortini e Giusino, quelli che si piazzano dietro ai giornalisti durante le dirette dei tg. Dopo la decima siete in Paolinilandia.
C’è poi un’altra bella categoria, quella dei fan diciamo così troppo esuberanti. Gli incontri-scontri con gli artisti ci sono sempre stati, i seguaci scemi e invadenti pure, compresi quelli che chiedono foto e autografi in bagno. Una volta ne hanno chiesto uno a Richard Branson mentre faceva pipì in una turca. Pare che lui si sia girato e abbia firmato sovrappensiero e forse un po’ brillo. Vedete come si finisce quando ci si fa prendere la mano con questa storia delle celebrità da abbordare? Con lo schizzo di piscio d’un milionario sui pantaloni.
I cantanti sembrano lì per noi, immaginette pop dentro tondini di Instagram che alimentiamo cuoricinandone i post o con piccole adulazioni che non costano nulla (di comprarne i dischi non se ne parla, «ci devono tutto» in cambio di un like). O che, al contrario, possiamo criticare o disprezzare lasciando frasi taglienti con la convinzione d’avergliene dette quattro. Il paradosso è che più ti concedi, più critiche rischi di ricevere, forse perché con la tua generosità alimenti l’illusione d’una condivisione orizzontale e totale e diventi un bersaglio facile.
Pensate a quel che succede ad Alessandra Amoroso, che è notoriamente una delle cantanti pop italiane più disponibili coi fan a cui concede prove aperte e occasioni d’incontro, e con cui intrattiene un rapporto straordinariamente vivo. Ogni tanto viene bersagliata sui social per via di video di pochi secondi decontestualizzati abbinati a commenti acidi: «non si è fermata a parlare con questo o con quello, odia i suoi fan». Vogliamo di più, sempre di più. Vogliamo tutto. Non capiamo più la differenza fra il desiderio di comunicare e l’impulso a documentare il momento, abbiamo sacrificato il primo a favore del secondo. Ma è un problema nostro, non di chi fa il cantante di mestiere.
Non sto dicendo che tra artista e pubblico dovrebbe esserci più distanza o un rapporto più formale. Certi incontri alimentano il lavoro di quelli che per brevità chiamiamo artisti. Ci sono storie belle e persino toccanti di rapporti coi fan, siamo tutti legati dalla stessa passione, la musica è scambio anche fuori dalle sale da concerto, una foto è il ricordo d’un momento (ma quel momento deve esserci, ecco). Non dico insomma d’arrivare al livello di Kurt Cobain, che quando vedeva una celebrità si voltava dall’altra parte per rispettarne la privacy. Dico solo che nessuno deve niente a nessuno, nemmeno un selfie.
Mi viene in mente una canzone di Francesco De Gregori. S’intitola Guarda che non sono io, descrive una scena vagamente simile a quella di Dylan e spiega in modo dolce che c’è sempre una frattura, grande o piccola, tra cantante e canzoni. Nel pezzo, De Gregori è al mercato. Un fan lo vede, lo chiama per nome e lo ringrazia. Vuole sapere qualcosa a proposito d’una vecchia canzone. “Ed io gli dico: scusami però non so di cosa stai parlando, sono qui con le mie buste della spesa, lo vedi sto scappando. Se credi di conoscermi non è un problema mio”.