La funzione e il ruolo del produttore discografico sono profondamente legati a quello che nel tempo è stata ed è la tecnologia. Le nuove tecnologie hanno sempre influenzato la creazione e lo sviluppo di nuove forme d’arte, fin dall’invenzione del pianoforte che incentrò la musica occidentale sulla tastiera e sul sistema di temperamento equabile, reso poi popolare da Bach. L’arrivo dell’elettricità alla fine del XIX secolo ha permesso la duplicazione delle esecuzioni e, più tardi, l’amplificazione degli strumenti.
Non c’è musica prodotta oggi che non sia stata plasmata dalla registrazione e dalla duplicazione. Quando nel 1904 John D. Smoot, ingegnere della società europea Odeon, portò nell’arcipelago indonesiano una primitiva apparecchiatura per registrare le orchestre gamelan, i musicisti locali rimasero perplessi. Perché copiare un’esecuzione? Le melodie popolari locali che circolavano nei loro villaggi avevano una vita media di poche settimane. Perché mai qualcuno avrebbe voluto ascoltare una versione stantia di un brano obsoleto quando era così facile ottenere musica nuova?
Quando i fonografi si diffusero in tutto il mondo, ebbero un effetto sorprendente: le melodie popolari, che erano sempre state malleabili, cambiando con ogni interprete e in ogni esecuzione, furono trasformate in canzoni fisse che potevano essere ripetute all’infinito e con esattezza. La musica divenne più breve, più melodica e più precisa.
Le prime apparecchiature potevano effettuare registrazioni che non superavano i quattro minuti e mezzo, così i musicisti troncarono le vecchie opere e crearono nuova musica abbreviata per adattarsi al fonografo. Dato che le prime registrazioni sonore erano di musica non amplificata, la registrazione enfatizzava i suoni forti dei cantanti e de-enfatizzava parti strumentali più silenziose. Il musicologo Timothy Day osserva che quando i musicisti iniziarono a registrare cercarono, per la prima volta, di suonare adattandosi a come venivano “ascoltati” dalla tecnologia. Quando il leggendario fonico Frederick Gaisberg arrivò a Calcutta nel 1902, solo due decenni dopo l’invenzione del fonografo, scoprì che i musicisti indiani stavano già imparando a imitare la musica registrata e si lamentò del fatto che non era rimasta nessuna musica tradizionale da registrare.
Nel 1947, Capitol Records pubblicò la registrazione di un brano – intitolato Lover – realizzato nel garage del famoso chitarrista Les Paul e che comprendeva otto differenti parti di chitarra, tutte suonate da Les Paul. Fu la prima volta in cui venne utilizzato il “multi-traccia” in una registrazione, poiché le registrazioni vennero realizzate non in tempo reale, ma offline. Nacque così il nuovo “artefatto” musicale con il quale grandi artisti come i Beatles, Jimi Hendrix e migliaia di altri crearono il prodotto artistico su cui venne fondata l’industria discografica come la conosciamo oggi.
La tecnologia di registrazione ha riscattato il musicista professionista. I macchinari per la registrazione e la duplicazione hanno continuato a elevare il ruolo dei musicisti nel corso di questo secolo, fino a far raggiungere a molti di loro lo status di celebrità (e la ricchezza). Uno status che solo pochi musicisti avrebbero potuto sognare qualche centinaio di anni fa. A Mozart non andò mai così bene.
La musica, ormai, è dappertutto… la si ascolta nella pubblicità, nei film, nei ristoranti, sui siti, a casa e – da qualche anno – dovunque si trovi una persona dotata di uno smartphone. Con l’avvento di internet è emerso, dalle menti creative di giovani nuovi artisti, un modo interattivo, che integra più discipline per produrre musica. Siamo nel mezzo di un altro cambiamento storico, che aspira a incorporare e trascendere i linguaggi e le discipline necessarie per comunicare nuove visioni artistiche. Lo streaming (o il download) di file musicali sono solo il sottoprodotto di una filosofia e di una visione che riflette le condizioni attuali di un mondo sempre più connesso. Un mondo in cui tutti i cambiamenti culturali, sociali, politici, spirituali e artistici avvengono a una velocità sempre maggiore.
In passato, un musicista non aveva necessità di imparare tecniche di registrazione o di produzione, né doveva preoccuparsi di integrare immagini con la sua musica; oggi invece gli artisti creano, sviluppano e manifestano le loro idee utilizzando molte tecniche diverse, senza alcun problema e in modo quasi totalmente autonomo. Abbiamo assistito a una democratizzazione dei mezzi digitali e questo ha permesso al grande pubblico di approcciarsi ai mezzi e alle tecniche di produzione, ma ha anche diffuso l’illusione di una “democrazia artistica”.
Con l’ascesa del postmoderno, ciò che all’inizio sembrava fosse fonte di creatività senza fine – come la nobile idea che molteplici punti di vista (e relative visioni del mondo) possano essere trattati in modo equo e imparziale (pluralismo e diversità) – è diventato presto un incubo paralizzante.
Una specie di follia a-prospettica, dove regna l’insidiosa nozione che nessun punto di vista è migliore di un altro (tranne il proprio), portando a un soggetto che guarda se stesso mentre cerca di guardare il mondo. Da qui la popolarità dei social media, contesti nei quali il desiderio di apparire è diventato più importante della reale bellezza di essere.
Rapportato alla musica popolare, ciò che una volta era una scienza basata sulla ricerca, sulla profondità emotiva e sulla diversità artistica, risulta – oggi – essere l’imprenditoria della superficialità. Non si costruisce, ma si decostruisce, evitando contenuti per offrire invece rumore.
Oggi, le aspiranti star della musica popolare sono, quasi tutte, impegnate a creare “GIF musicali”, facilmente riconoscibili dall’ascoltatore, il quale – a sua volta – le usa per condividere/ sottolineare le proprie emozioni, sotto forma di piccoli “meme musicali” (non a caso l’industria discografica vede come sua salvezza economica la piattaforma TikTok, il che mi lascia ancora più esterrefatto).
Da quando il gas della postmodernità ha iniziato a soffiare, le produzioni artistiche, come canarini nel pozzo di una miniera culturale, stanno morendo in numero allarmante. Nonostante il postmoderno voglia farci credere che il “copia e incolla sonoro” e il “sentito dire musicale” – ai quali siamo soggetti quotidianamente – siano artisticamente rilevanti, nel bene o nel male, non c’è altra strada, tranne lo studio e la ricerca di nuovi vocaboli musicali e sonori (anche attraverso nuove tecnologie) per poter costruire un artefatto musicalmente valido.
Ci convinciamo che siamo tutti uguali e quindi chiunque, se ci prova abbastanza, può diventare un grande artista. Questo è un mito da sfatare, secondo me, perché non è così, e non sarà mai così. Ci sono persone che hanno capacità e talento che vanno al di là di quello che si usa o di quanto ci si applichi per migliorare. Non basta saper suonare la chitarra o sentirsi bene quando lo si fa, non basta essere un grande amante della musica.
Credo che la gestione del mercato della musica popolare sia in mano a un gruppo di aziende e di personaggi che hanno come unico fine quello di arricchirsi o di arricchire i loro shareholders quanto più possibile. Illudono, con sogni impossibili (paragonabili a una vincita al Lotto), giovani aspiranti musicisti che si ritrovano poi a essere spremuti e derubati del loro prodotto.
Il paesaggio culturale di oggi è paragonabile a un labirinto di specchi, pieno di trappole per un aspirante artista, per via dell’industria dello svago e di questo desiderio di quantità e non di qualità, di questo bisogno estremo di avere tracce musicali brevi, usa e getta, per poter far crescere le visualizzazioni, i like e di conseguenza i profitti.
In questo modo, il gruppo di aziende di cui sopra, può costruire – quasi gratuitamente – un catalogo enorme per le proprie piattaforme. A essere premiati sono però pochissimi eletti, con promozioni e vendite irraggiungibili dal resto dei creatori di musica.
Quello che oggi viene pubblicato dall’industria discografica è un prodotto creato da una comunità di tantissimi fabbri di note (anche molto abili), da pochi artigiani della musica e da rari artisti. Il risultato è che, invece di poter beneficiare di un’uguaglianza di opportunità, ci ritroviamo a subire una conformità di espressione. Fin quando l’intento principale dietro a un lavoro artistico sarà pilotato dal miraggio della popolarità e dall’accumulo di ricchezza personale (come meta e convalida del proprio operato), purtroppo rimarremo prigionieri di un déjà-vu di note e di progressioni armoniche nell’ottaedro della musica popolare.
C’è bisogno, da parte dell’artista, di una seria gavetta, dello studio necessario per acquisire una tecnica elevata dello strumento preferito e l’imprescindibile padronanza del linguaggio musicale. Questi elementi permettono di esprimere e sviluppare quanto più precisamente la scintilla creativa iniziale, senza però rimanere prigionieri della tecnica stessa. Non ci sono scorciatoie.
Nessuno scienziato usa le tabelline per descrivere i meccanismi dell’universo evitando la fisica quantica solo perché è un linguaggio difficile o non popolare. Non è giustificabile l’idea (per me fasulla) che la musica semplice venga sempre dal cuore, mentre quella più complessa no.
Così come non può essere giustificabile continuare a usare le stesse progressioni armoniche e linee melodiche perché limitati da lacune musicali o perché non si ha voglia di sperimentare utilizzando nuovi approcci armonici e sonori. Al di là della nostalgia, non so a cosa possa servire oggi replicare sonorità di sessanta e più anni fa, rigurgitandole di nuovo nella bacinella della musica popolare e spacciandole per novità.
Come l’acqua prende forma da ciò che la contiene, così la musica è determinata dalle condizioni nelle quali viene espressa e la mia grande speranza è che, con l’arrivo dell’ondata trans-moderna, le cose cambieranno.
Con l’avvento di nuove tecnologie ci sarà – spero – una nuova generazione di cuori e di menti audaci e innovative, che faranno pieno uso del linguaggio digitale e della sua fluidità creativa, creando un artefatto rilevante che forse potrà nutrire di nuovo il cuore affamato dell’umanità.
L’utilizzo di tecnologie ha senz’altro creato innovazione e facilità d’intervento. Chi ha lavorato in analogico conosce bene l’impatto positivo – e tsunamico – che il digitale ha avuto sull’editing o sulla correzione di una performance e/o di un arrangiamento.
Ricordo quando le case discografiche davano tempo all’artista, i contratti iniziali prevedevano la pubblicazione di almeno tre album, perché tu avessi la possibilità di sviluppare una direzione e visione artisticamente unica. Adesso tutto questo è impensabile, si vuole tutto e subito, non importa se è brutto, buono, se è fatto bene o no. All’industria musicale interessano principalmente i numeri.
Per chi è cresciuto dedicando la propria vita a una formazione artistica, un tempo necessaria per una carriera durevole e rilevante, questo cambiamento di visione, da parte dell’industria dell’intrattenimento, ha contribuito e contribuisce a un generale assopimento sonoro, popolato da sonnambuli che sembrano dialogare con balbuzie melodiche.
Queste stesse tecnologie hanno impigrito e incoraggiato il famigerato copia e incolla che, ahimè, ormai caratterizza il suono (sempre più povero e prevedibile) delle canzoni e della musica pop in generale. Addirittura, si è data legalità al concetto di “interpolation”, incoraggiandone l’uso come nuovo modo per rimpacchettare melodie, progressioni e spezzoni sonori già ampiamente usati.
Per l’industria, questo nuovo modo di fare musica ha facilitato la pubblicazione della stessa, tagliando enormemente i costi di produzione. Come conseguenza, le case discografiche hanno invaso il mercato con un numero quasi illimitato di canzoni, senza investire (come succedeva alla genesi dell’industria) sul talent-scout e sullo sviluppo dell’artista stesso.
Questo approccio ha inoltre creato l’illusoria esistenza di una improbabile democrazia di talento, insieme con la rassegnata accettazione di filastrocche musicali da parte di un pubblico sempre più disinteressato alla qualità sonora. Si è posto l’accento sulla convenienza di una tecnologia che con l’utilizzo di un semplice laptop offre la possibilità, a un aspirante celebrità, di vivere quei famosi 15 minuti di fama.
Ci sono ovviamente tanti altri stili musicali, molti dei quali sono liberi da imperativi commerciali e dove l’innovazione è usata per creare, invece, composizioni e sonorità nuove e lungimiranti. È in queste comunità marginali che i prossimi “veri” innovatori troveranno terreno fertile per l’impiego di nuove tecnologie, mostrando alle prossime generazioni nuove profondità dell’arte e dello spirito umano. Se parliamo di musica e non di intrattenimento, la più grande sfida che oggi un produttore deve affrontare è quella di non confondere la visione artistica, e la validità di un’idea, con un improbabile guadagno economico. Un produttore deve avere il coraggio e la pazienza di investire il proprio tempo e la propria abilità nel creare un contributo artistico che possa arricchire la nostra cultura e non solo le proprie tasche.
Ho vissuto fuori dall’Italia per la maggior parte della mia vita, ma ho l’impressione che, in un Paese in cui paradossalmente la musica è sempre stata parte integrante della vita dei suoi connazionali, il lavoro del musicista non sia stato ancora riconosciuto come un importante ed essenziale tassello del patrimonio culturale ed economico e sia ancora invece relegato al semplice ruolo d’intrattenimento e di divertimento.
La musica non dovrebbe essere fine a se stessa (come centro di attenzione personale), ma dovrebbe essere uno strumento per riportare gli ascoltatori verso la realtà della loro stessa consapevolezza («o chiamale se vuoi emozioni…»). È un concetto non molto popolare, in questa era postmoderna, dove l’Arte di creare musica sta diventando sempre di più il mestiere di distribuire svago e dove l’essere apprezzati per quello che sembriamo apparire – piuttosto che per quello che abbiamo veramente da offrire – è la fragile convalida del nostro fare artistico.
Questa condizione alimenta l’incertezza che ci spinge verso la ricerca di nuove idee, ma che ci rende, anche, meno capaci di riconoscere la creatività, forse quando ne abbiamo più bisogno. Scoprire l’esistenza e la natura di un pregiudizio verso la creatività può aiutare a spiegare perché le persone tendono a rifiutare idee creative e a soffocare un possibile progresso scientifico/culturale, anche davanti a forti intenzioni contrarie.
Eppure, la creatività è una delle espressioni più alte della cultura umana, poiché ci consente di produrre qualcosa di nuovo e di originale, andando oltre le nostre abitudini mentali e i modelli di pensiero preconfezionati. La creatività musicale, in particolare, richiede un elevato grado di sensibilità, intuizione e capacità di ascolto, oltre che una sviluppata conoscenza tecnica e una grande dedizione alla ricerca di possibili nuove forme artistiche.
Ovviamente, non può esserci traguardo artistico durevole e rilevante, senza applicazione nello studio. Studio inteso non come fine a se stesso, ma come modo più sicuro e veloce per integrare nuovi concetti e nuovi orizzonti artistici nell’immenso spazio della nostra immaginazione, e nel quale può scoppiare un vero Big Bang d’idee. Nella mia mente vedo un futuro di cuori affamati e di talenti scintillanti che – armati dalla voglia di andare oltre i manierismi di generi musicali ampiamente goduti e, spesso e volentieri, anche abusati – troveranno il coraggio d’innalzarsi sulle spalle di chi li ha preceduti, integrando e trascendendo linguaggi e discipline, per comunicare a un mondo sempre più connesso la loro nuova brillante visione artistica. Non vedo l’ora.
La domanda più grande, per chi oggi vorrebbe diventare un artista, un produttore o un addetto ai lavori di questa industria, è: perché lo fai, qual è il tuo scopo finale?
Se lo scopo è fare arte, bisogna accettare tutta una serie di conseguenze che vanno contro le leggi del mercato, perché ormai la musica non è più l’unico svago (deve confrontarsi con videogame, video streaming, social media, piattaforme come Discord, Twitch, ecc). Quindi è imprescindibilmente vitale studiare, imparare, metter da parte la voglia di fama e gloria e capire se davvero si possiedono le qualità, se si ha qualcosa da offrire, che tu sia produttore, autore, musicista, cantante o compositore. Molti dimenticano che ci sono tantissimi ruoli nell’industria musicale, e non solo quello della “star”.
Da un punto di vista esclusivamente “artistico” è importante creare qualcosa che sia culturalmente valido, offrire qualcosa che aggiunga al piatto culturale dell’umanità, non solo voler raggiungere la popolarità, che è invece una cosa che si fa per se stessi (e per far soldi). La musica è qualcosa che dovrebbe trasportarti in un mondo dove puoi trovare te stesso, che può cambiarti la vita, e può avere anche una funzione terapeutica.
È questo che vorrei trasmettere, attingendo dai miei cinquant’anni e più di esperienza, durante i quali ho avuto la fortuna di vivere gli inizi dell’industria musicale e di attraversare tutta la trasformazione che l’ha riguardata, i successi e non, e ho avuto modo di vedere il tutto da punti di vista diversi, sia come musicista che come autore, come ascoltatore e come produttore.
Sono tutte cose che ho vissuto in prima persona quindi mi auguro che il mio punto di vista possa essere utile, proverò a raccontare ciò che per me è diventato scontato ma che forse, anche per le nuove generazioni, non è così immediato.
Il rinnovo può avvenire solo nell’ignoto, nell’eterno presente, nel quale vive il potenziale seme di ciò che ancora non conosciamo. In questo presente, possiamo guardare solo dentro noi stessi e di conseguenza avanti verso un altro attimo di un “presente futuro”. Io credo fermamente che col tempo verrà fuori una tecnologia in grado di creare della musica mai ascoltata prima, ed è a questo che voglio pensare invece che alla nostra contemporaneità che mi sembra limitata e limitante.
La caratterista che ti rende un artista non si può definire, non si può creare. L’artista vero ha qualcosa che non si può spiegare, non basta studiare o essere tecnicamente perfetti, o saper scrivere un testo, ci sono tanti artisti che hanno bisogno d’aiuto per ampliare e sviluppare un’idea ma l’importante è che ci sia qualcosa di vero, nel testo o nella musica, e avere qualcosa da dire, in un mondo come quello di oggi in cui invece tendiamo a essere tutti uguali, quando è la diversità che crea l’arte.
Dal libro di Corrado Rustici Breviario del produttore artistico (Volontè&Co, prefazione di Narada Michael Walden), in libreria da sabato 18 maggio.