Stasera Federico Dragogna dei Ministri porterà il suo spettacolo Quello che ho capito di De André a Su:ggestiva, che si tiene nel complesso archeologico del Ninfeo della Villa dei Quintili, Parco dell’Appia Antica, a Roma. L’idea della rassegna, che continuerà fino al 23 ottobre (ulteriori informazioni qui), è proporre in location insolite e suggestive concerti e performance. Come quella di Dragogna dedicata a Fabrizio De André. Gli abbiamo chiesto di spiegarci, allora, che cosa ha capito del Maestro.
Quando da piccoli facciamo le nostre prime solitarie scoperte, ci sentiamo come esploratori che mettono per primi piede in una valle incontaminata, quando magari da quella stessa valle sono passate generazioni e generazioni di uomini. Io De André lo scoprii una domenica di molti anni fa, arrampicandomi sulla libreria di mio padre, che dormiva alle mie spalle davanti a un gran premio di Formula 1. Avevo 8 anni e De André aveva appena pubblicato il suo dodicesimo album, Le nuvole: lo estraevo dal jewel case con la cura che a quel tempo si riservava ai compact disc, lo inserivo nel lettore, mi mettevo le cuffie e mi lanciavo nelle mie esplorazioni. E scoprivo mondi incredibili: ballate in napoletano, favole della buonanotte, cori in dialetti incomprensibili, nomi, cognomi, parolacce.
Frequentai quel signore e le sue canzoni per gli anni a venire: mi accompagnò per tutta la mia adolescenza e oltre, dandomi per ogni età ottimi cattivi consigli. E mentre crescevo, cresceva in me lo stupore nel vedere come il mio privatissimo Maestro venisse incensato dalla nazione tutta, intenta a preparargli piedistalli e allori, a cantare in coro i suoi successi e a ritwittarne i versi. Non era solo il tradizionale smacco che provavo nell’accorgermi che molti amavano ciò che avevo amato, era piuttosto un misurare infastidito la distanza che passava tra le parole delle sue canzoni (pericolose, oscene, pure) e il pensiero (avvizzito, bigotto, corrotto) che guidava i rappresentanti della suddetta nazione.
Ero io che non ci avevo capito niente, che avevo trovato nelle canzoni di Faber un esplosivo che in fondo era solo maniera, o erano loro che stavano cercando di disinnescare quella bomba mettendola nella teca di un museo?
Sintetizzando, per l’appunto: ma io cosa ho capito di De André?
Così cominciò questo mio spettacolo, da una ricerca – ricerca di una qualche verità sul mio maestro e sulle parole che, in fondo, mi hanno guidato negli anni in cui ognuno decide da che collina guardare il mondo. Era l’estate del 2019 quando decisi di farlo diventare, più che un testo, un racconto da portare in giro, senza venderlo, semplicemente portandolo a chi lo voleva ascoltare: mi misi di fronte libri, testimonianze, frammenti che lo riguardavano e, quasi subito, incappai in una sua intervista in cui diceva «Questi ragazzi vogliono delle certezze, ti invitano a tenere conferenze nelle università, e io sinceramente mi domando: ma che gli vado a dire? Vado a dire che sono insicuro quanto loro, forse più di loro, che ho anch’io bisogno di certezze. Ti senti addosso un sacco di responsabilità che, in effetti, non ti dovrebbero competere».
La questione si complicava ulteriormente: il mio Maestro non voleva nemmeno sentirsi chiamare Maestro – e in tre righe mandava in crisi l’adagio sinistrorso che vuole l’artista responsabile, impegnato e portatore di grandi verità. Cominciò così il mio viaggio dentro la sua e la mia vita, un viaggio in cui ho cercato di levarmi di dosso tutti i giudizi e i pregiudizi che avevo sul rapporto tra l’artista e la sua opera, ma anche sul rapporto tra ogni figlio e ogni padre. Sapevo che sarei andato a scandagliare un’esistenza non semplice, ma nemmeno mi aspettavo di trovare così tanti tormenti e così tanta normalità: la normalità di un fannullone fuoricorso, figlio di buona famiglia, che cerca il successo nelle canzoni lasciando la via maestra che porterebbe a lauree in giurisprudenza e grassi stipendi, ma anche i tormenti di un alcolista confesso, restio a salire sul palco a causa di incontrollabili attacchi d’ansia, un ragazzo padre con tanta voglia di emergere e poca voglia di andare a dormire.
In quest’epoca che vuole vietare il Male e pretende dagli artisti fedine penali e morali in cui potersi specchiare, De André avrebbe trovato oggi nemici – letteralmente – a destra e a sinistra. Anarchico, individualista, libertario, aristocratico e popolare assieme, amante del merito ma detrattore della virtù, paladino degli esclusi e segnatamente degli esclusi cattivi, sporchi, impresentabili – quelli di cui nessuno parla e che nessuno ha interesse a difendere. Per non parlare poi dei suoi maestri: spiriti come Brassens (che mai volle conoscere, appunto per non “rovinarselo”), Riccardo Mannerini (poeta, marinaio, eroinomane) e, soprattutto, Gesù – che definì il più grande rivoluzionario di tutti i tempi e che incontrò non certo a casa (il padre era un convinto anticlericale) ma a scuola, che pure detestava per tutto il suo corredo di regole e disciplina. E proprio Gesù, più che il suo fan club, gli permise di riscoprire un concetto che attraversò tutta la sua opera e la sua vita, che scorse come un ruscello sotto un ghiacciaio: il perdono. In particolare, il perdono degli imperdonabili, ovvero l’unico che può dirsi tale, e con cui De André ebbe a confrontarsi non solo guardando negli occhi i cattivi dei libri, ma anche ritrovandosi davanti quelli che in carne ed ossa lo rapirono e lo legarono a un albero per quattro mesi.
Il perdono – vale a dire, ancora oggi, uno dei gesti più potenti di cui l’essere umano disponga – è la parola chiave per leggere la sua opera, e per rileggerla in questo oggi che si crede così diverso da ieri. Ed è forse per questo che, oltre ai politici che ne sfruttano la luce, tante persone hanno deciso di seguirlo e ascoltarlo, come a suo tempo tanti seguirono e ascoltarono Gesù. Per un bisogno, per alcuni inconsapevole per altri inconfessabile, di perdonare – e, così, liberarsi.
O almeno, questo è quello che ho capito io.