Rolling Stone Italia

Freddie Mercury è ovunque e in nessun luogo

Alla ricerca di un posto dove piangere il cantante dei Queen. Zanzibar, Londra, Montreux: storia geolocalizzata di un mito sfuggente. «Nessuno mi conosce davvero e non voglio che accada»

Foto: FG/Bauer-Griffin/Getty Images

C’è una sorta di paradosso che circonda ancora la figura di Freddie Mercury a trent’anni dalla scomparsa. Si ascolta spesso, anche casualmente, la sua musica, ma di fatto non esiste un luogo fisico in cui poterlo ricordare, celebrare o semplicemente piangere. Insomma, è come se Freddie Mercury fosse ovunque e da nessuna parte.

Provate a fare un esperimento: lasciate accesa la tv tutto il giorno e provate a contare il numero di volte in cui le immagini sono accompagnate da un pezzo dei Queen. Dalla pubblicità, passando per Ballando con le stelle, fino ad arrivare agli improponibili imitatori che da sempre ne ripercorrono indegnamente le gesta vestiti di giubbottino giallo, è praticamente impossibile non imbattersi in continui omaggi più o meno a fuoco del leader dei Queen. Le cose, va da sé, si intensificano ulteriormente se parliamo di radio (e ci mancherebbe) e social network, dove il mito passa da connotati messianici a fotomontaggi abominevoli circondato da angeli, unicorni o altri animali di fantasia.

A differenza di altri nomi ultra blasonati, poi, il suo mito non solo non vede cedimenti, ma anche grazie a operazioni come al biopic Bohemian Rhapsody sembra aumentare in maniera esponenziale di giorno in giorno. Eppure, e questo è forse un unicum nella storia del rock, è quasi come se non esistesse un luogo capace di racchiuderne in qualche modo la memoria. Certo, il fatto di essere nato a Zanzibar, di aver passato gli anni degli studi in India e di essere diventato una rockstar a Londra ha reso difficile identificare la sua figura con un luogo specifico, ma è stato lo stesso Freddie a far sì che in qualche modo la sua figura rimanesse sfuggente e avvolta nel mistero, persino dopo la sua morte.

Un mistero tanto affascinante quanto i luoghi che ne avevano visto muovere i primi passi. Il cambio di identità e la scientifica ritrosia a parlare degli anni a Zanzibar prima e Bombay (oggi Mumbai) poi, uniti alla diffidenza nei confronti dei giornalisti, fecero il resto. «Non amo parlare con i giornalisti, perché non amo parlare di me con chi non conosco. In realtà, nessuno mi conosce veramente, perché non voglio che ciò accada».

Difficile capire fino in fondo le difficoltà nel voler rendere pubbliche alcune parti della sua biografia, anche se una delle cause potrebbe essere ricercata nella paura di essere identificato troppo con luoghi e tradizioni contro cui egli stesso andò costantemente in opposizione e che temeva potessero affascinare meno rispetto a quelle di colleghi provenienti dagli States o da quella Swinging London che dalla fine degli anni ’60 era diventata il centro culturale non solo d’Europa, ma della gran parte del mondo. Semplicemente, forse, Freddie temeva che l’epoca che si trovava a vivere non fosse ancora pronta per osannare una rockstar di cultura africana e indiana. Aspetti che paradossalmente finirono per influire enormemente sulla sua idea di arte e spettacolo: nessuno prima di lui aveva infatti cercato con tanta insistenza la fusione di stili e arti apparentemente molto distanti una dall’altra ed è forse questo l’aspetto in cui il suo retaggio culturale ha dato i frutti maggiori.

Se si analizzano i suoi testi, da quelli atti al puro intrattenimento fino a quelli più introspettivi ed autobiografici, i riferimenti diretti alle proprie origini sono praticamente inesistenti (eccezion fatta per la stramba Mustapha, pezzo di apertura dell’album Jazz, il cui testo senza senso mischiava varie lingue provenienti dal suo background). E la stessa cosa vale per i molti anni trascorsi in India, nei confronti dei quali probabilmente nutriva ancora più rancore. «Zanzibar? Beh, ci sono nato. Ci sono rimasto tre o quattro anni e poi mi sono trasferito in Inghilterra», ripeteva spesso come un mantra durante le interviste nei primi anni ’70. «Non c’è molto da fare in quel posto».

Alla luce dei fatti, dichiarazioni troppo scarne (e parziali) per essere del tutto sincere e che probabilmente gli servivano per placare il turbinio di sentimenti che quei ricordi gli provocavano. Forse proprio per questo, i luoghi stessi della sua formazione non hanno mai voluto davvero celebrarne la grandezza: una targa sulla casa natale e qualche informazione approssimativa sulle guide turistiche. Roba che, in proporzione, Little Tony potrebbe davvero essere paragonato a Elvis. Quasi a dire: tu che potevi darci lustro e portare la nostra cultura nel mondo occidentale ci hai cancellati, allora noi facciamo lo stesso con te.

A Londra le cose vanno un po’ meglio, ma fino a un certo punto. La scelta di non rivelare il luogo dove sono state sparse tumulate o sparse le ceneri, pesantissima eredità lasciata nelle mani di Mary Austin, ha fatto sì che l’unico vero luogo di aggregazione dei fan provenienti da ogni parte del mondo sia diventato Garden Lodge, la dimora in cui Freddie trascorse gran parte della propria vita inglese. Il fatto che però anche l’abitazione faccia parte dell’eredità, questa volta materiale, della Austin ha messo decisamente il bastone tra le ruote ai pellegrini del rock. Riservata e restia a parlare con i media proprio come l’amico e compagno di una vita, Mary ha ostinatamente impedito che la casa potesse trasformarsi in un luogo di culto, in primis facendo cancellare dai muri le dediche dei fan nei mesi successivi alla scomparsa dell’artista. Una scelta impossibile da accettare dai fan bisognosi di versare le proprie lacrime, ma non difficile da comprendere e in linea con la voglia di privacy di Freddie.

Cosa resta dunque? Un po’ a sorpresa, forse il luogo che più di tutti è riuscito a convogliare tutti gli orfani di Mercury resta Montreux. La cittadina svizzera, già ampiamente entrata negli annali del rock per infiniti motivi, continua a trasudare Mercury da ogni poro. I numerosi album incisi ai Mountain Studios dai Queen, i lunghi ritiri protrattisi fino a poche settimane dalla morte e il fatto di avervi scritto e inciso le ultime note hanno reso la città svizzera qualcosa di molto simile a quello che Parigi rappresenta per i fan di Jim Morrison. E dopo la sua scomparsa, tutto ha finito per amplificarsi. La baita sul lago resa iconica dalla copertina di Made in Heaven, la statua eretta sul lungolago dagli stessi familiari di Freddie, oltre che da Brian May e Roger Taylor, così come le continue iniziative volte a ricordarne la grandezza, hanno dato quella patina di ufficialità di cui i fan avevano tanto bisogno. Oltre a far sì che lo spirito di un uomo nato in Africa da una famiglia indiana e divenuto leggenda nel Regno Unito, finisse per aleggaire sopra il lago Lemano.

«Se cerchi la pace dell’anima, vieni a Montreux», diceva spesso all’amica Montserrat Caballé. Era più semplice del previsto, bastava solo ascoltare le sue parole.

Iscriviti