Desiderato, atteso, invocato. E quindi eccocelo, Iosonoucane. Non c’è che dire: vuoi per lo spessore e l’impatto di Jacopo Incani sulla nostra musica (cioè: DIE è stato l’LP italiano più importante dello scorso decennio, no?), vuoi per i tempi di lavoro biblici, con gli album ogni cinque anni, il ritorno sulle scene dell’artista sardo era fra i più attesi della stagione. Lui, che dove gli altri vedono muri apre porte, e dove gli altri mettono in scena emulazioni di Battisti scova l’oro. Poi figuriamoci, stavolta la portata è doppia: il nuovo singolo Novembre e una cover del classico Vedrai, vedrai di Luigi Tenco. Non che dovesse andare così: il terzo disco della casa, IRA, è pronto e sarebbe dovuto uscire in primavera, dopo un tour nei teatri in cui lui ne avrebbe suonato in anteprima i brani, ma per ovvi motivi il progetto è congelato in attesa del prossimo anno. Intanto, però, questa anticipazione. E per di più con un’etichetta storica come la Numero uno di Mogol, fucina di freak del pop nei ’60 della gestione con Lucio, e in reboot oggi proprio con questo pezzo.
Ma ci arriviamo, con calma. Partiamo dall’inedito: dopo tanta latitanza è naturale che le orecchie si posino subito lì, su Novembre. Che deve rispondere all’hype acuminato del dopo DIE, l’Anima latina dei millennial, e giustificare l’attesa per il labor limae tipico dell’artista sardo, fatto di sedimentazione e riscrittura a garanzia di un certo tipo di risultato. Quale? Un pianoforte, un valzer spettrale e una Cristina che incontriamo in medias res, “figlia di un lago, figlia di un uomo bruciato”; poi puntellate d’archi che diventano vertigine in un ritornello cinematografico e barocco (“Il mattino ti cerca la schiena / fra gli stracci di una strada già piena”), con sintetizzatori che – giuro – si direbbero natalizi ma che soprattutto contribuiscono a un’atmosfera “stagionale”, autunno-inverno, quindi angosciante e grondante di malinconia. Con cori pseudo-liturgici e, sulla scena, un’attesa, un ritorno, la miseria del tempo che passa nella durezza della vita contadina, infine la morte dentro. Un colossal nella neve: un reduce, magari, di una guerra qualsiasi delle tante dei primi del Novecento che torna dalla propria amata nei campi gelati. Le parole, come solito, si poggiano sul fondo e ricorrono: “figlia”, “seno”, “Natale”; “mattino”, “terra”, “mangiare”. L’aria è austera più che rétro, la voce forse mai così armonica. I passaggi in radio, impensabili. Per riferimenti, siamo fra il primo De Gregori, ermetico e spettrale, e il pop italiano dei ’60, quello elegante e malinconico di Bindi, Paoli e lo stesso Tenco; per resa, approssimando, dalle parti del Bianconi solista (ma con la ritmica).
E, ripensando al sole bieco, ma radiofonico di Stormi (era solo un disco fa!), si resta spiazzati. Ma è una reazione pronosticabile, visto che i lavori precedenti di Iosonouncane erano agli antipodi, fra loro e col resto della musica italiana. L’esordio de La macarena su Roma, per esempio, era un lampo verboso e spoken, sintetico negli arrangiamenti, urlato e disarmonico. Al contrario, DIE procedeva compatto e profondo, cantato, con poche parole ricorrenti figlie di sottrazione lessicale. E con le pulsazioni in bella vista, certo, ma anche con chitarre acustiche e cori, a riallacciare i fili della tradizione mediterranea pur tenendosi nel solco della sperimentazione e della suite elettronica da otto minuti. La costante: (auto)distruggersi, prima di ricostruire. Ed è così anche stavolta: suona tutto nuovo, apparentemente inconciliabile col resto (suo e altrui).
Per cui: dove va Iosonouncane? Vedrai, vedrai porta ancora verso il canzoniere dei ’60 a cui appartiene il pezzo. Che si sente nel ritornello circolare di Novembre, e di cui ne è tributo esplicito questa cover. Certo: si parla di rovesciare il tavolo, perché dai toni originali – che sottendevano la malinconia esistenziale dietro un romantico pianoforte – si passa a una marcia funebre, scandita dalla cassa e in cui ogni promessa già vaga diventa parodia, insieme a un Incani paradossale crooner. Però, appunto, la tradizione c’è: ci muoviamo su un terreno ultraclassico con strumenti moderni (un po’ come il Morgan solista), creando – qui, sì – una patina vintage digitalizzata. Ma non è una posa. Anzi: nelle aperture strumentali, nei ricami e negli stravolgimenti c’è la voglia di accostarsi al passato attualizzandone l’estetica, di fare musica barocca e raffinata coi mezzi di oggi. E di sperimentare, soprattutto, sulle geografia di un canzoniere di per sé abbastanza dimenticato. Novembre, infatti, gioca con elementi storicizzati (gli incisi ariosi ma angoscianti, modello Tenco appunto) e altri anacronistici (l’atmosfera liturgica), mentre sembra che l’artista voglia procedere a ritroso: da Anima latina e i ’70, ora va al decennio precedente. Un viaggio perennemente in anticipo sui colleghi. Ed è bello che avvenga sotto il nome della Numero Uno, che nella vita precedente pubblicava (oltre a quel gran ricercatori di suoni di Battisti) nazionalpopolari dissociati dal mainstream come Demetrio Stratos, Graziani, Finardi, e adesso riparte così. Che ci sia un valore allegorico?
Ora, però, rallentiamo: non sappiamo come inquadrare questa uscita; se si tratta di una vera anticipazione di IRA, di un paio di outtake o di materiale concepito durante la pandemia, quindi a disco già chiuso. E però conosciamo Incani abbastanza da comprendere che non si muove per caso, e che quindi il prossimo album verosimilmente non sarà troppo dissimile da tutto ciò (contenga o meno questi due pezzi). Tradotto: scordiamo Stormi, Buio, Tanca. Perché, per fortuna, lui non si ripete. E se La macarena su Roma era del 2010, DIE del 2015 e questo ritorno del 2020, allora Iosonouncane è una cometa. Passa di rado, come un evento straordinario; ma quando arriva illumina, sovverte i canoni degli ascolti, alza la posta in gioco. Ti porta dove gli altri neanche immaginano. E noi? Proprio come con gli astri: siamo fortunati testimoni del suo passaggio sulle nostre teste.