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Giuni Russo, la sua vita e la sua arte come un’ode infinita alla libertà

Il 13 settembre 2004 moriva una grande interprete e una donna sempre in guerra: contro l'omologazione e le major, i giudizi e la malattia. La sua energia e la sua rabbia sono stati un ciclone che non tutti potevano capire, né accettare

Il mondo discografico oggi è una guerra. Manda gli artisti in prima linea, soprattutto se giovani e ancora in forze, e li fa bombardare spietatamente per poi ucciderli e sostituirli appena possibile ,riempiendo le fosse comuni della Rete di promesse mancate. Gli stessi artisti, peraltro, sono contentissimi di essere carne da cannone: appena vedono la lucente banconota sarebbero capaci di farsi saltare sulle mine antiuomo del consenso di massa senza battere ciglio. In questo clima suicida, difficile pensare a una qualche resistenza: le nuove leve in futuro probabilmente non avranno i loro partigiani a cui portare fiori. Il 13 settembre, invece, noi celebriamo la scomparsa di un’eroina caduta mentre lottava sul campo della musica, il cui esempio è faro nella notte di questi giorni. Stiamo parlando di Giuni Russo, l’amazzone della musica “leggera” italiana.

Le parentesi sono doverose perché Giuni di leggero aveva ben poco: la sua era una vita votata alla sperimentazione senza quartiere, paradossalmente sintetizzata proprio da quell’Un’ estate al mare che conoscono anche i sassi, di diritto nel pantheon delle divinità della canzone italiana. Un brano astutamente confezionato insieme a Franco Battiato e al suo team in cui viene derisa la canzonetta estiva, rivoltandone come un calzino le progressioni armoniche di maniera e le tematiche spensierate. Qui, invece, si parla di prostitute di strada, che sognano finalmente una vacanza al mare in mezzo a quelle “gomme d’automobili” bruciate nelle “sere quando c’era freddo”, ma si parla anche di una grande prestazione vocale della nostra. In questo brano Giuni imita il canto di un gabbiano, arrivando ad una estensione vocale quasi aliena, a prova di tagli addizionali sul pentagramma. Il pezzo, che doveva essere solo una parentesi commerciale, si tramutò nella sua gabbia dorata: ma col senno di poi è anche la summa di tutti gli sfaccettati aspetti della personalità di Giuni.

Prima di tutto, come già accennato, le capacità vocali quasi infinite, che la muovevano tranquillamente dal pop al rock alla new wave fino alle “trifonie di mongoli” citate nel pezzo autobiografico Una vipera sarò, dalla lirica agli scioglilingua Petroliniani di Se fossi più simpatica sarei meno antipatica. Per Giuni non c’era barriera che non potesse essere abbattuta, anche se l’impresa si dimostrava ardua, piuttosto che darla vinta preferiva rompersi la testa. Ricordiamo la sua massiccissima mise wave-maoista sulla iconica copertina del capolavoro Energie del 1982, il disco della svolta, dopo anni a cercare una quadra, collaborando con Cristiano Malgioglio, scrivendo dietro le quinte pezzi per Amanda Lear (tipo la clamorosa Ho fatto l’amore con me), ma anche vincendo a Castrocaro con A chi, finendo al Cantagiro con pezzi scritti da Al Bano, andando a Sanremo col patrocinio di jazzisti come Enrico Intra, facendo la corista per artisti vari ed eventuali come Filipponio o Il balletto di bronzo, o prestando la sua potente ugola alle pubblicità della Philips. Dopo essersi votata per anni comunque e quantunque a una provocazione sottile, nel segno dell’ambiguità sotto diversi pseudonimi, finalmente usciva la vera Giuni Russo.

Lo stile è un’altra parte importante della sua personalità. Una bellezza androgina, un’eleganza innata, le idee chiare. Una suffragetta che, intuendo prima di tanti altri il connubio immagine/musica era pronta a lanciare bombe a mano in forma di tracce quasi visive: Energie è un disco di culto, nato proprio mentre Giuni pensava di abbandonare per sempre le scene. Fortunatamente sulla sua strada apparì il grande Alberto Radius ( il guitar hero della Formula 3 di battistiana memoria), che la mise nelle mani di Battiato, ancora ignaro del futuro successo che avrebbe avuto la sua Voce del padrone, disco che all’epoca era ancora in incubatrice. Energie è un album spiazzante, in cui un misto di generi a volte distanti tra loro si fondono perfettamente, a partire proprio dal carisma di Giuni. Un album epico, da pelle d’oca, il riscatto da una vita di lotte, riassunto nell’interpretazione magistrale del Sole di Austerliz. Ma la vera lotta era in realtà appena cominciata, tanto che presto avrebbe preso la forma di una vera e propria battaglia.

Battaglia che portò avanti grazie a un altro aspetto fondamentale del suo carattere: la grande ironia e la capacità di riempire di messaggi subliminali i suoi brani, per bypassare le maglie della censura. Basti pensare a Vox, suo secondo grande album, del 1983, uscito per sfidare la casa discografica e quella Caterina Caselli, il fu casco d’oro passato dal microfono a muovere i fili della CGD, che la teneva in pugno e avrebbe voluto bloccarla nella zona morta delle canzoncine estive, che pur costelleranno la sua carriera, forse per ripicca. Vox è un disco ancora una volta sperimentale, allucinato e nello stesso tempo delicatissimo, disseminato di odi all’omosessualità femminile e maschile e con uno sguardo disincantato sulla velocità dei tempi moderni, visti come una chance di “resettarsi” su nuovi valori, inediti e folli.

La sensualità (e quindi ovviamente la sessualità e l’eros) è un altro aspetto forte della Russo, di cui non solo è intrisa la sua voce e la sua produzione, ma anche le sue scelte di vita. Ormai non è più un mistero che Giuni e la sua paroliera, produttrice autrice e manager, Maria Antonietta Sisini, fossero legate sentimentalmente, ma in tempi bigotti come l’Italietta degli anni ’80 ci voleva coraggio nell’affrontare certi temi. Qualità che a loro due non mancava, sebbene corrodessero il sistema dall’interno più che lo scontro esplicito e frontale. Forse viene il dubbio che la stessa Caselli nutrisse un amore per Giuni particolarmente possessivo, ma le ali della Russo preferivano sciogliersi solo una volta toccato il sole, passando dal buio: l’importante che fosse per propria mano. Il brano Post Moderno ne è una prova, un delirante saliscendi nelle profondità dei dubbi umani nei confronti della macchina/tempo. Ancora una volta la sua totale ricerca di autonomia cozza con le maglie del sistema: l’album Mediterranea del 1984, infatti, pur cercando di tenersi buoni i piani alti con brani d’evasione tipo “Limonata cha cha cha”, è un disco quasi vapor wave ante litteram, costellato di suoni digitali e di pezzi tipo Babilonia, pieno di messaggi in codice di matrice gay, che alzano inevitabilmente l’asticella e quindi anche lo scontro con la discografia, che infatti penalizzò appositamente il disco, facendolo uscire nel difficile mese di luglio e sabotandone la promozione.

Era un modo per mostrare il pugno a Giuni completamente inutile, tanto che la nostra chiese di recidere il contratto . Di contro la CGD pose una causale che la stigmatizzava come artista “non gradita”, “ingestibile”, “anarchica”. Nessuna grande etichetta dopo questa vera e propria “lettera di licenziamento” volle più averla in scuderia: come Mia Martini, accusata di portare sfiga e quindi demonizzata dall’ambiente musicale, anche Giuni passòsotto le forche caudine dell’ingiuria, vedendosi passare davanti artisti a cui poteva tranquillamente dare la polvere. Non si diede per vinta, trovò la Bubble, un’etichetta indipendente ma con uscite di grande successo, come la Kalimba de luna di Tony Esposito, che finalmente gli lasciò carta bianca.

Certo, era una barchetta di pirati in mare che combatteva contro i transatlantici, ma usando le stesse armi del nemico (ovvero le canzonette da bagnasciuga), Giuni ottenne una pronta rivincita, con il successo di Alghero, vera e propria hit del 1986, che trainò con le sue sole forze un disco ancora una volta inusuale (come il titolo di un suo disco postumo di inediti del 2006, per l’appunto chiamato Unusual). Giuni, usciva fuori tempo massimo, perché precedentemente bloccato dal contratto capestro con la CGD, ma sembra ancora oggi fresco e senza tempo, colmo di poesia. L’anno dopo usciva Album, che conteneva l’esplicita Adrenalina, grandioso duetto con la Rettore, altra outsider femminile nel patinato mondo del pop. In questo lavoro veniva portata avanti a razzo la ricerca sui suoni dei sintetizzatori FM con alla guida gli arrangiamenti del deus ex machina Roberto Colombo (l’artefice del sound elettronico dei Matia Bazar).

Nel 1988, poi, ecco un’altra svolta decisiva, che apre una nuova stagione di sperimentazioni della nostra beniamina. A casa di Ida Rubinstein avviene un ritorno agli azzardi di Energie: Giuni reinterpreta arie d’opera, da Donizetti a Bellini, con arrangiamenti che ne rendono mutanti le possibilità sonore, tanto da essere senza dubbio incasellata come un’opera indecifrabile (infatti nessun etichetta accettò il pacchetto se non L’ Ottava, dell’amico Battiato). È forse l’album nel quale inizia a farsi largo in maniera prepotente un altro aspetto del mistero Giuni Russo: la spiritualità. Se precedentemente si era manifestata con l’adesione all’esoterismo di Gurdjieff (tra l’altro adorato anche da Battiato), presente nella canzone Bing bang being, lato b di Un’estate al mare, in questo periodo comincia ad avvicinarsi al cattolicesimo e in particolare a quegli aspetti borderline incarnati dalle figure delle carmelitane scalze e di Santa Teresa d’Avila, una passione che la porterà anche a dedicar loro un brano e ben sintetizzata nel disco autobiografico Se fossi più simpatica sarei meno antipatica.

Uscito nel 1994 è a tutti gli effetti l’ultimo album di inediti in cui Giuni tenta di rinnovare il suo linguaggio avvicinandosi quasi all’hip-house, ad esempio nella title track, e che osa anche nell’utilizzo del dialetto siciliano, suo idioma di origine, in un duetto sempre con Battiato, ormai il suo alter ego maschile. In apparenza questa sua conversione potrebbe apparire curiosa, ma non c’è contraddizione:è evidente il suo immedesimarsi nelle vicende di Santa Teresa, ostinata nella sua idea di cambiamento religioso, di provocazione alle regole costituite e imbevuta di estasi ultraterrene quasi piccanti. Determinata, nonostante in quanto donna all’epoca venisse continuamente perseguitata come eretica, essendo la teologia campo esclusivamente maschile. Un po’ come Giuni, appunto, la cui intelligenza musicale era ancora una volta ostacolata dal mercato, che in quegli anni ’90 diventava sempre più ostico verso chi non piegava la testa. Non è un caso che l’album Gelsomini d’Arabia, pronto per uscire nel 1997, venne fermato dalla sua casa discografica, la NAR International, vedendo la luce in maniera sparsa solo nei vari dischi postumi degli anni 2000.

Questo provocò in Giuni l’ennesimo periodo di elaborazione della sconfitta: come un soldato, si rifugiò nella trincea delle apparizioni sporadiche, dei dischi live, del teatro (come quando fu diretta da Enzo Trapani in Verba tango) e delle comparsate televisive. Poi, nel 1999, la scoperta del cancro: il destino beffardo volle che accadesse proprio un anno dopo il festeggiamento dei suoi 30 anni di carriera. Fu un periodo dolorosissimo, in cui tutte le fedi di Giuni crollarono, la sua prima reazione è quella di bestemmiare il cielo, ma anche la terra. La tentazione di arrendersi, poi l’ illuminazione: bisognava trasformare l’energia negativa in trampolino di lancio, ancora una volta, verso la rottura di qualsiasi catena. L’artista accettò la malattia e decise di non fermarsi: prima recuperò il suo passato, anche quello più scomodo, come i rifacimenti di Un’estate al mare con i Novecento e la presenza alla trasmissione amarcord Cocktail d’amore, condotta da Amanda Lear, poi cercò di spingersi ulteriormente in avanti nella zona della fede spirituale in musica, con l’inserimento del Carmelo di Echt di Juri Camisasca nel suo album dal vivo Signorina Romeo Live.

Infine, passò all’ attacco. Resasi conto che poco le restava da vivere e che, in fondo, non si era mai tolta la soddisfazione di riuscire a bucare le coltri nazionalpopolari di Sanremo, nel 2003 si impose alla direzione artistica di Pippo Baudo, riuscendo a portare all’Ariston Morirò d’amore, una canzone che era stata già bocciata diverse volte in sede di ammissione al Festival. Già dal titolo era il testamento della cantante. Arrangiato dalla strepitosa coppia Colombo-Battiato, il brano fece il botto e raggiunse il settimo posto. Emergeva un’altra caratteristica di Giuni, lo sprezzo del pericolo: da vera combattente, si era presentata sull’Ariston testa rasata e bandana, a sottolineare il suo stato di salute, ma soprattutto l’accettazione dello stesso, che diventava un alleato nella battaglia per l’arte. Da questo momento la carriera della Russo sembrava rilanciata, l’album omonimo del brano sanremese (che conteneva solo quattro brani inediti e per il resto era una riedizione del live precedente) ebbe un certo successo commerciale: uscirono compilation, fioccavano le collaborazioni, ci fu persino un eccellente disco di demo inedite degli anni ’80 dal nome Demo de midi.

Ma il 2003 fu l’ultimo anno della sua vita: si spegneva il 13 settembre 2004, quando avrebbe avuto ancora molto da scrivere e cantare. Secondo la Sisini, spirò fissando un angolo della stanza, sorridendo meravigliata come se ci fosse una presenza celestiale. Noi fan la guardavamo allo stesso modo quando lei era in vita: un portento incredibile, un esempio di donna e di artista controversa, che non si è mai arresa neanche davanti all’impossibile, per la quale mischiare i linguaggi e le idee era un dono naturale. Consiglio dunque a chi non la conosce e soprattutto alle nuove generazioni di partire dalla fine,  dal postumo Armstrong del 2017. In quel disco (curato tra gli altri da Paolo Pinaxa, l’ingegnere del suono di Violator dei Depeche Mode, di cui cade quest’anno il trentennale) troverete il testamento di chi si ribella all’establishment discografico, ma soprattutto un’ode senza limiti alla libertà e alla rabbia come “energie” vitali, citando John Lydon. Raccogliete il suo testimone, vi porterà lontano.

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