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Gli Arctic Monkeys di ‘The Car’ sono pronti per il prossimo Bond fragile e introspettivo

Fuori elegantissimi e dentro meditabondi, gli inglesi continuano sulla strada di ‘Tranquility Base'. Nel disco che uscirà venerdì ci sono i Beatles, Bowie, Gainsbourg. È decadente, maturo e un po' nostalgico

Foto: Zackery Michael

Nel 2018 Tranquility Base Hotel & Casino, il sesto album degli Arctic Monkeys, si apriva con un verso emblematico: «Volevo solo essere uno degli Strokes e invece guarda che casino che mi hai fatto fare». Il casino in questione era l’album stesso, il quale ha posto definitivamente fine all’indie rock inaugurato proprio dagli Strokes a inizio millennio e portato agli apici dai Monkeys dal 2006 in avanti.

Come è facile immaginare, non tutti i fan hanno preso con entusiasmo il cambio di registro messo in scena da Alex Turner & co. in quell’occasione. In effetti sembrò un inspiegabile suicidio radere al suolo il sound raggiunto con AM nel 2013 in cambio di 11 tracce lounge molto piacione, molto poco cantabili, per giunta appesantite da un maldestro immaginario retrofuturista e sci-fi troppo poco credibile. Tuttavia al tempo ho apprezzato molto la scelta, certamente coraggiosa, se non altro perché sembrava l’unica strada percorribile dagli Arctic Monkeys per sopravvivere a sé stessi e non diventare dei pupazzetti da stadio.

Ad ogni modo, in questi anni l’attesa di un loro nuovo album è diventata soprattutto l’attesa di conoscere se sarebbero tornati di nuovo quelli con le chitarre o se c’era da aspettarsi qualche colpo di scena.

La risposta è The Car, il settimo album della band originaria di Sheffield, che non corrisponde a nessuna delle due ipotesi, per fortuna. Già il primo singolo, There’d Better Be a Mirrorball aveva chiarito che non ci sarebbe stato un ritorno alle origini, trattandosi di una ballata elegante e decadente, adatta per la colonna sonora di un James Bond fragile del XXI secolo, al quale ha fatto seguito l’altrettanto cinematografica Body Paint. Due tracce bellissime, niente avventure nello spazio, ma nemmeno riff serpeggianti. The Car rimane sui binari di Tranquility Base Hotel & Casino con il suo immaginario vintage spinto che suona pastoso, vellutato e polveroso, proprio come immaginiamo gli anni ’70, ma i dieci brani hanno molta più profondità e consistenza.

Siamo entrati ufficialmente nel periodo post Arctic Monkeys degli Arctic Monkeys, che paradossalmente è quello più nostalgico e citazionista, risultando stavolta però estremamente efficace e azzeccato. L’estetica della band, dagli outfit ai video, è andata ulteriormente in quella direzione, d’altra parte sappiamo bene quanto le acconciature di Turner vadano di pari passo con il sound della band, che in questi anni è passata dai frangettoni post adolescenziali alla trasandatezza psichedelica, al ciuffo da teddy boy, fino ad arrivare a oggi, archetipo di un Serge Gainsbourg contemporaneo e trapiantato nella strippatissima Los Angeles dell’anno del signore 2022, che non deve essere esattamente un toccasana per il cervello.

Non a caso tesi si dividono a metà tra un romanticismo per cuori infranti, relazioni che scricchiolano o che sono giunte al capolinea e la narrazione dal punto di vista di una rockstar decaduta, alle prese con gli aspetti posticci della celebrità, che a un certo punto immagina un ipotetico futuro nel quale si ritrova a cantare in spagnolo sulla tv italiana (?!). In una recente intervista Alex Turner ha dichiarato di non aver ancora ascoltato questo disco in macchina. Io l’ho fatto e posso dire che è particolarmente indicato farlo con i finestrini chiusi, imbottigliati nel traffico, in quei giorni feriali uguali a tutti gli altri, nei quali preferisci prendere un semaforo rosso in più per aspettare che finisca il pezzo, posticipando di qualche minuto il ritorno al silenzio della casa e una cena a base di minestroni surgelati.

The Car è stato prodotto, come al solito magistralmente, da James Ford, bravissimo in questo caso ad agevolare la natura eterea dei pezzi che presentano una serie di novità non irrilevanti, su cui lo stesso Turner ironizza nel testo di Sculptures of Anything Goes, nel quale dice «bucare la bolla di identificazione con il tuo nuovo, orrendo sound», magari citando la recensione di qualche fan incazzato del precedente disco.

Ci sono un sacco di wah-wah e di chorus, per esempio nel terzo singolo I Ain’t Quite Where I Think I Am che evoca un universo vicino a David Bowie e nella lennoniana Jet Skis on the Moat, quest’ultima uno dei pezzi migliori di un lavoro che non ha dei veri e propri apici ma mantiene un livello alto costante. Ci sono poi parecchie tastiere e pianoforti, anche se questi non rappresentano più una novità, al contrario dei pezzi acustici come l’introspettiva Mr. Schwartz e la title track. Ma soprattutto ci sono gli archi, un sacco di archi, un’intera orchestra di archi che compaiono un po’ ovunque, in combutta con gli organi in Hello You e in particolar modo in Big Ideas, un altro dei migliori pezzi del disco – che prende a piene mani dal repertorio dei Wings, come già Body Paint fa dalla carriera solista di McCartney in generale – e poi ancora nel congedarsi in Perfect Sense, che chiude l’album con un bel “goodnight”.

È una citazione che non può essere casuale, a dimostrazione del fatto che si tratta del disco più beatlesiano degli Arctic Monkeys, probabilmente non il più iconico, senz’altro non il migliore, ma di sicuro il più maturo e intenso, che si lascia amare solo dopo qualche ascolto e punta a rimanere a lungo nello stereo della vostra macchina.

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