Miles lo sperimentatore, l’innovatore, il genio. Miles con la tromba sulle labbra, la sordina nella campana, My Funny Valentine sussurrata sul palco del Village Vanguard. Il fumo delle sigarette, il fruscio delle spazzole sul rullante, whisky con ghiaccio, il sostegno del contrabbasso, il pianoforte un tappeto di velluto. New York, anni 50. Miles il pappone, il disgraziato, lo sfruttatore. In prigione perché la madre dei suoi primi figli era venuta a sapere che infilava le banconote nelle mutandine delle spogliarelliste mentre lei si faceva il mazzo con la prole. Sempre a New York, gli inizi della sua carriera. Miles Davis, icona della musica. Discusso, chiacchierato, paparazzato. Ammirato, soprattutto. Uno di quelli che ha contribuito a svolte, meraviglie, rivoluzioni. Un artista che guardava sempre avanti. Miles il tossico, l’eroinomane. Cocaina, pure. Un andirivieni dal tunnel, dalle dipendenze. Amante delle belle macchine, Lamborghini, Ferrari. Come quella guidata in un episodio da paranoia pura, quando si è messo in strada, ha notato della neve incastrata nella tasca dello sportello e l’ha scambiata per bamba. Pensava che qualcuno lo volesse incastrare, ha parcheggiato la fuoriserie in mezzo alla carreggiata e si è fiondato nel primo condominio a tiro, è salito fino al settimo piano, si è nascosto nella stanza dei rifiuti.
Miles il donnaiolo, complicato stare al suo fianco. Ne sa qualcosa Frances Taylor Davis, ballerina a Broadway, diventata la sua prima moglie. Lui le chiede di lasciare tutto, c’è posto per un solo artista, in casa. Sesso, con urgenza: una volta l’aveva chiamata alle prove di West Side Story, costretta a rincasare per pranzo, poi si era fatto una scorpacciata. A letto, non a tavola. Miles a 360 gradi, già. Difficile parlare solo di musica di fronte a una figura così immensa e totale, ma è pur sempre con uno strumento in mano che ha fatto cantare la sua anima. Delicata, magica.
Da ragazzo aveva assorbito la frenesia e il virtuosismo del bebop alla corte di Charlie Parker, il numero uno, uno dei pochi a scandalizzarlo: erano in taxi, quando una prostituta iniziò a praticare del sesso orale al sassofonista, impegnato nel frattempo ad azzannare una coscia di pollo. Schifato, Miles ha protestato. E Parker con la risposta pronta: «Allora girati dall’altra parte». Così il trombettista ha concluso il viaggio con la testa fuori dal finestrino. Perché negli anni 50 e 60 il jazz è stato anche questo, uno stile di vita spesso estremo, un ambiente squattrinato, soprattutto per gli artisti di colore. Così loro confermano, il libro Four Lives in the Bebop Business ne è la voce. E Miles, che i soldi più avanti li ha fatti eccome, stabilmente assorbito dalla questione razziale, facendoci i conti a modo suo, senza mai nascondere la sua rabbia, l’ostilità. Da vittima, spesso, che non tiene chiusa la bocca.
In un’occasione è finito con la testa insanguinata perché un poliziotto non voleva farlo entrare nel locale in cui doveva suonare. Assurdo. Lui indicò all’agente il nome scritto sul cartellone: Miles Davis. «Sono io», gli ha detto. E bam, si è beccato il manganello. È capitato anche questo. Con o senza Parker, che l’aveva scelto perché cercava qualcosa di opposto al suo stile sclerotico e sincopato, la tromba di Miles per ammorbidire l’impatto del suo sax lanciato a mille all’ora. Voleva una voce più lirica, posata. Era arrivata l’ora di melodie che la gente può «canticchiare facilmente per strada a passeggio con una ragazza mentre cerca di baciarla», ha detto Miles riferendosi a Birth of the Cool, anno 1957, il disco che dimostra quanto il giovanotto fosse in grado di avere una sua visione e prendere la sua strada. Due anni dopo firma il disco più venduto nella storia del jazz. Kind of Blue.
Agosto 1959. Un disco accessibile e allo stesso tempo sofisticato. Rottura, in un anno in cui l’ambiente era in fermento. L’uscita di The Shape of Jazz to Come, firmato da Orlette Coleman: si parla di free jazz, un ascolto elaborato, più testa e meno pancia, sembrerebbe. Nel ’59 va in stampa anche Take Five di Dave Brubeck, musica da bianchi, tempi dispari. Passano dieci anni e Miles è ancora lì, sul pennone del galeone, a indicare la direzione da prendere. Ha aperto al jazz elettrico, contaminato. Si sparge la voce di un suo contatto con Jimi Hendrix, l’intenzione di lavorare insieme. Ma poi il mostro della chitarra rimane intrappolato negli eccessi, per certi versi simili a quelli che Miles aveva vissuto e consumato. Il jazzista ne era venuto fuori. Per il chitarrista, invece, fu fatale.
La firma di Kind of Blue aveva cambiato anche il modo di presentarsi di fronte al pubblico. Chiudendo nell’armadio gli abiti di sartoria, le cravatte, i completi che indossava al Village Vanguard. Sfoderando pantaloni di pelle, gilet stravaganti, foulard svolazzanti. Sembra che a questa svolta abbia contribuito la sua fiamma di quel periodo, Betty Davis, tigre del funk. Lo ama, lo svecchia. Poi ognuno prende la sua strada. Miles smette di suonare. È provato, corpo e spirito. Si chiude in casa. Cocaina, fino a 500 dollari al giorno. Signorine. Alcool: Heineken e cognac insieme. Mister Davis scompare. La pausa: 1975 – 1980. Poi il ritorno. Ad alcuni piace, ad altri meno. Il jazz d’altronde è tema da salotto, si presta ai commenti, alle chiacchiere. Intenditori tanti, professori pure, opinioni a non finire. Nicchia, setta, élite. Oggi a tratti aristocratica, ieri estremamente popolare. Una musica fatta da gente come Miles, che sapeva spiazzare in ogni occasione. «Il mondo è un continuo cambiamento,, la gente che non cambia si troverà come i musicisti folk a suonare nei musei e nei locali del genere. Non c’è senso a cercare di tornare indietro, un uomo non può tornare nel grembo di sua madre». Sempre proiettato in avanti, Miles: «La musica è una benedizione e una maledizione insieme. Ma la amo e non potrebbe essere diversamente».