Apro una pagina a caso, il libro è pieno di cose, si casca sempre bene. Trovo una foto scattata a San Francisco nel dicembre 1965. È del designer Ettore Sottsass, che all’epoca era sposato con Fernanda Pivano e frequentava il giro dei poeti beat. Siamo in un ristorante cinese, o almeno così sembra. Sul fondo, sfocata, c’è una coppia forse ignara che seduti al tavolo a fianco ci sono Bob Dylan, Lawrence Ferlinghetti, Allen Ginsberg, Peter e Julian Orlovski. Pare che la combriccola fosse andata in un posto più lussuoso, ma alla vista di barbe e sandali era stata cacciata. «Tutti fuori!», aveva intimato la cameriera. Tutti fuori, anche le migliori menti della sua generazione.
Curato da Mark Davidson e Parker Fishel, Mixing Up the Medicine, uscito in Italia per Rizzoli Lizard, è un’impressionante raccolta di foto e oggetti su e di Bob Dylan. È il catalogo supremo d’una vita raccontata attraverso immagini d’ogni epoca, appunti scarabocchiati, tracce di conversazioni private, lettere, nastri. Sono qui riprodotti e annotati, ma raccolti fisicamente nel Bob Dylan Center di Tulsa, Oklahoma, che non è l’ombelico del mondo, ma la fibbia della Bible Belt o come la chiamavano un tempo la capitale mondiale del petrolio.
Se sono lì un motivo c’è. A Tulsa ci sono i soldi di George Kaiser, miliardario a capo della BOK Financial Corporation, uno che s’è messo in testa di rendere Tulsa un bel posto dove crescere, vivere, prosperare. Dopo aver messo in piedi il Woody Guthrie Center dedicato al padre di tutti i folksinger novecenteschi, che era effettivamente dell’Oklahoma, s’è messo in testa di far qualcosa di simile per il più noto tra i figliocci di Guthrie. Si dice che Dylan abbia ceduto gli oggetti che raccontano la sua vita d’artista per una cifra che oscilla tra i 15 e i 20 milioni di dollari, potenza del capitalismo filantropico.
Inaugurato nel 2022, il Bob Dylan Center conta 100 mila pezzi. Ce n’è per tenere occupato per anni anche il più accanito dylanologo. Immagino che anche dopo la rassegna di migliaia di oggetti e la lettura di decine se non centinaia di libri sull’argomento (potrebbe non essere un numero iperbolico) ci sarà sempre qualcosa di non detto, di sfuggente, d’inafferrabile. Come ha detto Dylan di sé e di Shakespeare, «i nostri pozzi sono profondi», e crepi la modestia. Data l’impossibilità di fornire uno sguardo definitivo di un’attività che deborda d’ogni parte, è quindi è appropriata la forma scelta dai curatori di Mixing Up the Medicine, quella del racconto frammentato dell’auto-costruzione dell’identità cangiante di uno dei grandi del Novecento.
È un libro che si può leggere dalla prima all’ultima pagina, come un romanzo su un personaggio inventato chiamato Bob Dylan. Se ne ottiene il racconto frammentato ma sufficientemente completo dell’arte di Dylan suddiviso in nove macrocapitoli ordinati cronologicamente, dall’infanzia al 2023. Oppure lo si può sfogliare guidati dal caso e dalla curiosità. Le tantissime foto commentate valgono come biografia per chi è interessato al percorso dell’artista e non a quell’uomo, di cui continuiamo a sapere poco considerata la mole di documenti esistente sul suo lavoro. Ci sono le immagini, ad esempio, di Dylan coi musicisti punk tutto sommato sconosciuti che scelse a sorpresa per suonare Jokerman al Letterman. Loro dietro le quinte gli chiedono quante strofe ci sono e se è previsto un assolo, lui risponde serafico che «se suona bene andiamo avanti, altrimenti vi faccio un cenno e la finiamo lì». Tutto questo in diretta nazionale.
Ci sono le riproduzioni che scatenano il piacere di vedere com’erano le cose appartenute a Dylan: il taccuino rovinato con la stesura delle canzoni di Blood on the Tracks, una giacca indossata su un set, una lettera mai spedita, la bozza di una canzone mai finita. O gli oggetti di altri, come la copia del Greatest Hits di Dylan scarabocchiata da Jimi Hendrix (c’è anche un saggio scritto a macchina da Dylan su Hendrix datato 1988 in cui ne loda la capacità di «entrare dentro e passare oltre» le sue canzoni). E ancora, il tamburo turco di Bruce Langhorne che pare abbia ispirato Mr. Tambourine Man, testi autografi d’ogni natura, appunti, poster, programmi, locandine, piani di produzione, indizi di un’attività mostruosamente ricca.
Da un taccuino del 1964 salta fuori una classifica stilata da Dylan che comprende Dusty Springfield, Twist and Shout, i Beach Boys. C’è il fax di John Lee Hooker del 1997 con gli auguri di pronta guarigione dopo il ricovero per la pericardite. In una lettera del 1971 Joan Baez avvisa: «Se andiamo in tour insieme, potrai cantare le mie canzoni a patto che io possa cantare le tue». In un foglio di carta con l’intestazione “Bruce Springsteen”, il musicista del Jersey dice che Chronicles lo ha steso e che «ci hai dato un bel distacco, ora dobbiamo rimetterci al passo». C’è tutto un mondo di connessioni. Da Paul McCartney a Bill Clinton, tutti scrivono a His Bobness e chissà se e come lui risponde.
E poi ci sono i 27 saggi commissionati da Michael Chaiken e Robert Polito che non sono affatto scontati. Sono affidati a dylanlogi di chiara fama, ma anche a musicisti, giornalisti, intellettuali. La cosa bella è la varietà dei registri e dei punti di vista. Jeff Gold ci fa quasi toccare con mano le raccolte blues possedute dall’artista da giovane, come quella su aveva scritto a penna la frase assurda e rivelatrice “Realizzato per e su Bob Dylan”, come se quella musica proveniente da un altro luogo e da un’altra epoca non solo gli parlasse, ma fosse stata scritta per lui, magnifica illusione, potere della musica. Griffin Ondaatje connette il repertorio di Dylan con quello di Conrad e offre un bell’esempio della tecnica del remix letterario usata dal musicista, della sua capacità di riutilizzare riferimenti, personaggi, immagini, altroché plagi.
Lee Ranaldo dei Sonic Youth racconta la ricerca da vero feticista del primissimo 78 giri inciso da Dylan con due amici quando ancora viveva nel Minnesota, il bisogno irrazionale di vedere l’oggetto per avere conferma della sua esistenza. Raymon Foye prende un manoscritto di Dirge e dimostra che non è un canto funebre per una donna perduta, ma per l’America morente. Dalle conversazioni col vecchio amico Tony Glover vien fuori un Dylan rilassato, famigliare, demitizzato. Larry Sloman prende una canzone minore (Handy Dandy) da un disco minore (Under the Red Sky) e ipotizza che si tratti di un autoritratto. Terry Gans mette assieme i reperti risalenti all’epoca, «a volte più di 20 bozze dattiloscritte per ogni canzone, a volte poche parole scritte su una scatola di fiammiferi», e ascolta una settantina di ore di registrazioni per compiere un «lavoro duro, pieno d’amore, sangue e sudore» su Infidels. Quando pensi d’aver capito l’artista, giri pagina e lui è già altrove a far nascere canzoni e interrogativi.
Alla fine di questo volumone di 600 e passa pagine, quasi tre chilogrammi di storia e di storie, si capisce che molto era scritto nell’epigramma di pagina 13. «La vita» pare abbia detto Dylan o forse è stato George Bernard Shaw «non è cercare se stesso o cercare qualcosa. La vita è creare se stessi, creare qualcosa». In un periodo come questo in cui la cultura popolare viene misurata in base a presunti criteri d’autenticità e l’imperativo è essere sé stessi, anche se quello che siamo è il più delle volte deludente, Mixing Up the Medicine ci ricorda la forza dell’invenzione e della reinvenzione di sé, ci spiega che l’arte può anche essere un esercizio combinatorio di fonti, spunti, opere, se beninteso il risultato finale è buono quanto un disco di Dylan. Ci rammenta che i motori più potenti della musica sono l’immaginazione e la curiosità, che all’uomo non sono mai mancati, nemmeno in età senile. E allora evviva questo Dylan che va in tutte e nessuna direzione, inventore di vite, maestro nel ricombinare le cose del mondo fregandosene di genealogie, gerarchie, cronologie.