C’erano una volta in Inghilterra due band, una che si stava polverizzando e una che stava perdendo i pezzi. Dopo Pornography i Cure si erano prosciugati e Robert Smith aveva bisogno di un momento di evasione da quel buco nero. Dall’altra parte, il grande chitarrista John McGeoch aveva avuto un esaurimento nervoso durante il tour di A Kiss in the Dreamhouse e aveva lasciato Siouxsie and the Banshees, che da questo episodio erano usciti notevolmente stressati, in particolare il bassista Steve Severin. Le storie di Robert e Steve non potevano che incrociarsi in un tentativo di recuperare la freschezza perduta.
La prima cosa che fanno è mischiare le carte. Nell’82 Severin diventa a tutti gli effetti un membro dei Cure. Smith lo invita a suonare il basso nella versione flexidisc di Lament, il primo brano che riesce a comporre dopo il trauma di Pornography, un pezzo che sarà poi riarrangiato in maniera razionale più avanti e pubblicato su Japanese Whispers, ma che qui è un caos primordiale che straborda, una specie di demo infinita fatta di ocarine fuori tonalità e una sorta di mood che si liquefà, stuporoso, che sembra prendere la strada della psichedelia dura e pura. Severin sarà il bassista dei Cure molto dopo in uno special televisivo in cui eseguiranno Siamese Twins per un balletto, ma nel frattempo ha chiesto prontamente a Smith di unirsi ai Banshees, orfani del loro guitar hero, anche in ragione di un precedente, quando nel ’79 ha sostituito McKay sul palco.
Smith accetta volentieri nell’ottica di levarsi di mezzo la pesante eredità dei Cure, ma la mente è anche e soprattutto altrove: alla ricerca di qualcosa che non somigli al già esistente, un progetto che sia puro piacere (e nel piacere sono incluse anche dosi di sadomasochismo) e che non sia legato alla pressione del music biz, anzi lo rifiuti a priori. Ed ecco che nasce Blue Sunshine dei Glove, di cui oggi cade l’anniversario.
Già dal primo pattern ritmico di Like an Animal si entra in una dimensione in cui Smith e Severin sono il cappellaio matto e la lepre marzolina: i suoni sono acidi, ultrapsichedelici, sinestetici, dalla cromia cangiante, e le canzoni sembrano raccogliere l’eredità di Syd Barrett. Il pezzo parte da un fatto di cronaca, a proposito di una donna impazzita, per sondare quanto lontano può spingersi la follia. Ma non c’è traccia della depressione o dell’impatto grezzo dei Cure o dei Banshees: qui sembra tutto visto sull’orlo di un burrone, il bad trip c’è, ma lo si tiene a bada grazie al basso gonfio di chorus di Severin, è come entrare nella stanza degli orrori o degli specchi deformanti al luna park. Una volta usciti, le cose tornano normali, ma finché ci stai dentro è un continuo interrogarsi su quello che vedi, in cui il bello, il brutto, il bene e il male sono ambigui e relativi, ma soprattutto “curiosi”.
Non a caso il nome del gruppo deriva dal guanto volante del film animato dei Beatles Yellow Submarine, un cattivo per antonomasia che però alla fine si redime e si unisce alla festa della liberazione di Pepperland. È quindi uno stato d’animo da fumetto quello che pervade il disco. La realtà è ribaltata, Smith e Severin sono due figure di cartone che sguazzano immobili in un fiume di tempera colorata, che più aggiunge tinte e più diventa nera. È il passaggio attraverso lo specchio di Alice, che nei Beatles viene caratterizzato dal tricheco e dal carpentiere aka Lennon e McCartney. Qui invece Smith e Severin sono Pinco Panco e Panco Pinco, due gemelli sonici che musicalmente si esprimono ai limiti dell’assurdo.
Anche la lavorazione del disco è surreale: Smith la ricorda come un vero e proprio attacco sensoriale. I due si chiudono in studio guardando 24 su 24 film horror di serie Z o pellicole deliranti come La casa di Sam Raimi, La covata malefica di Cronenberg, Inferno di Dario Argento, Barbarella, ma soprattutto il cult Blue Sunshine di Jeff Lieberman, la cui trama parla di una potente forma di LSD la cui assunzione trasforma la gente in maniaci omicidi. Il film ha una colonna sonora incredibile ad opera di Charles Gross, che è senza dubbio stata d’ispirazione per i due soprattutto nell’arrangiamento degli archi, armonicamente “spostati”, tanto che quello che a primo acchito potrebbe essere visto come un omaggio alle partiture di I Am the Warlus o di Blue Jay Way è in realtà una specie di plagio consapevole del compositore americano.
Altra caratteristica strategia “preparatoria” del disco, oltre al bombardamento sensoriale continuo, è l’assunzione di droghe psichedeliche in quantità semi industriale tanto che in 12 mesi di registrazioni le session effettivamente produttive avranno la durata di cinque giorni. Nel frattempo c’è un andirivieni di gente che va a fare festa nello studio, stile Fleetwood Mac dei bei tempi, distraendo completamente i due mentre cercano di incidere una parte di piano o di basso. Apparentemente la cosa dovrebbe piegare anche la persona più esperta, ma i Glove la usano come ispirazione per incanalare il caos (vedi la serpeggiante ed esplicita Orgy, con tanto di ocarina in stile Fool on the Hill). Dulcis in fundo, la lettura di tonnellate di giornali spazzatura con i quali i due realizzano dei collage sulla parete. La copertina del disco, opera dello studio Da Gama che poi offrirà i suoi servigi anche ai Banshees, riecheggia questa pratica.
La forza del disco sta soprattutto nella voce che in realtà non canta, ma danza. Jeanette Laundry infatti è una ballerina, membro del collettivo di danza Zoo, fisso a Top of the Pops (entrerà anche a far parte degli Hot Gossip, altra realtà fondamentale degli 80s in questo senso) ed ex fidanzata di Budgie. È la perfetta “looking glass girl / in a miniature world”, come da brano ominimo, quella che rompe il diaframma del delirio autistico/lisergico del duo e riesce a renderlo comunicante con l’esterno, ribaltando la loro immagine. Il risultato finale è simile al gioco del telefono, il segnale di partenza una volta uscito dalla sua ugola cambia di significato. D’altronde Jeanette non è esperta in materia (ma più tardi diventerà la cantante dei Kiss That, prodotti addirittura da Mick Ronson, diventando anche songwriter), e l’innocenza della sua interpretazione permette dei salti di tono audaci, delle vere e proprie piroette che vengono incoraggiate da Smith. Al quale, fortunatamente, viene impedito di cantare tutto il disco come da richiesta dalla sua etichetta, la Fiction, che temeva sciogliesse definitivamente i Cure.
Riuscirà a interpretare solo due brani di cui uno è un capolavoro di ironia beffarda rivolto proprio a chi tenta di bloccarlo. Mr. Alphabet Says è un’invettiva psichedelica fatta di pianoforti automatici, discese di archi (nel disco c’è lo zampino anche Anne Stephenson delle Venomettes) e un testo che cita direttamente il “toperchio” dell’Alice disneyana (la quale è un ossessione anche per i Banshees, come testimonia lo special televisivo Play at Home).
I testi sono quasi tutti frutto della penna di Steve Severin, che descrive un mondo in cui tutto viene ridotto a sogno, in cui anche la pazzia, l’appetito sessuale, il crimine si muovono su tappeti di gommapiuma e si liquefanno con la stessa velocità in cui si manifestano. Musicalmente invece Smith si conferma grandissimo autore di strumentali, come testimoniano il fragile trip spaccacuore di A Blues in Drag, l’allucinazione circense di The Thightrope e l’ambient esotica quasi pre vapor di Relax, per non parlare degli intermezzini a nome The Man from Nowhere, che poi è in realtà il titolo di un brano completo spezzettato e sparso in tutto l’album. Fatto importante è che alla batteria c’è Andy Anderson, che subito dopo abbraccerà la causa Cure, e nell’unica apparizione video allo show Riverside anche Porl Thompson, che allo stesso modo dopo anni rientra in seno ai Cure diventandone poi il guitar hero per antonomasia. Dall’altro lato, troviamo Martin McCarrick alle tastiere e agli archi, che nel 1987 diventerà il chitarrista factotum dei Banshees per poi passare nei Therapy?.
I Glove rappresentano l’anello mancante tra le band di Smith e Severin. Se già A Kiss in the Dreamhouse era un tentativo di attualizzare il verbo psichedelico in un contesto new wave (non rockettaro come i primissimi Cult e più pop degli Echo and the Bunnymen), il dopo Blue Sunshine dei Banshees è caratterizzato dall’uscita di Hyena, che è quasi Disney che si cala un trip atomico. Dai Cure arriva The Top, ovvero un diamante grezzo di improbabile psichedelia dark completamente bipolare. Per la prima volta, poi, Smith e Severin scrivono anche canzoni per altri: affidano infatti a Marc Almond e al suo progetto collaterale ai Soft Cell, Marc and the Mambas, la languida Torment, di cui si può ascoltare una versione demo nella ristampa del 2006 dell’album, con sostanziosi inediti (che, assurdo per assurdo, dicono siano stati ricantati da Smith per l’occasione).
Blue Sunshine non viene promosso dal duo, rimane nell’ombra oscurato da progetti più famosi dei due. Non nasce per avere successo, ma per entrare sotto pelle come l’LSD del titolo. Rimane a tutt’oggi uno dei dischi fondamentali della psichedelia moderna, la cui eredità fatta di mix tra elettrico ed elettronico (che è quasi un upgrade del terzo disco abortito dei Teardrop Explodes, di cui prende in mano il testimone ideale) possiamo ascoltare ancora oggi in questo momento di revival. Che non sia famoso come Sgt. Pepper’s o The Piper at the Gates of Dawn non è un caso: ai nostri eroi interessava che fosse “fumoso” e l’obiettivo è stato pienamente raggiunto.