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‘Humbug’, il suicidio che ha reso grandi gli Arctic Monkeys

Il 28 agosto 2009 usciva in Italia il terzo lavoro di Alex Turner e soci, un album odiato dai fan che trasformato quattro ragazzini impauriti nell'ultima grande rock band del pianeta

Alex Turner sul palco con gli Arctic Monkeys. Foto: Kimberley Ross

Quando si valutano le capacità di un artista, una delle principali chiavi di lettura riguarda ‘l’identità’: la riconoscibilità di uno stile sonoro, dell’uso della punteggiatura, del timbro vocale, del modo in cui impugna il pennello o suona la chitarra e via dicendo. Spesso è proprio l’identità, appunto, la chiave del successo di un’idea, tanto che non è difficile che alla ricerca del tratto unico e inconfondibile vengano sacrificate intere carriere. Se circoscriviamo il discorso alla musica, basta pensare all’importanza delle voci ‘doppiate’ per i Beatles o al timbro sibillino della chitarra di David Gilmour per i Pink Floyd o a quello scanzonato di Keith Richards per i Rolling Stones: intere discografie in cui tutto gira intorno a quel preciso elemento, fermo mentre lo sfondo cambia, stella fissa intorno cui creare un cosmo sonoro.

Discorso piuttosto reiterato che, tuttavia, si ribalta per quella che probabilmente è l’ultima grande rock band del Pianeta, ovvero gli Arctic Monkeys, che dell’annullamento della loro identità fecero la propria forza. Infatti, ciò che rende ancora significativi i Monkeys è la loro incredibile capacità di stravolgere i propri tratti somatici. È un errore, infatti, relegare la grandezza dei ragazzi di Sheffield ai primi due album, i più amati dai fan, perché l’unicità della band si afferma proprio dal terzo lavoro, quello paradossalmente più ‘odiato’ dal pubblico. Parliamo di Humbug, uscito in Italia il 28 agosto di dieci anni fa.

Gli Arctic Monkeys nel 2009. Foto press

Solitamente, infatti, quando si parla di Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not o Favourite Worst Nightmare è ricorrente la frase “Quelli si che erano i veri Arctic Monkeys, non come la roba che hanno fatto dopo”, ma è proprio in quella ‘roba’, da Humbug in avanti, che va ricercato l’elisir di Turner e compagnia.

Seppur differenti tra loro, i primi due album tenevano al centro una cifra stilistica ben definita, estremizzando influenze che andavano dagli Strokes agli Hives passando per i Franz Ferdinand: riff di chitarra ‘danzerecci’ e voce zoppicante, il tutto sopra a una tempesta di batteria, prima vera ‘rivoluzione’ dei Monkeys, raggiunta soprattutto grazie a Matt Helders, il bestione seduto dietro le pelli.

Tuttavia è proprio rallentando i tempi che i Monkeys sono diventati quello che sono oggi, una band convincente, lontana anni luce dal calderone dell’indie britannico della prima metà degli anni 2000, di cui rimangono gli unici veri superstiti. Libertines, Kaiser Chiefs, The Fratellis, The Kooks: tutti ormai abbandonati dai riflettori, mentre Franz Ferdinand o Kasabian attualmente non sono più le fuori serie che sembravano all’epoca. Per non parlare dei Klaxons, in quel periodo considerati fra le migliori band della scena, tristemente inattivi ormai da anni.

Al contrario dei colleghi – quella generazione che a metà degli anni 10 riportò la britannia a una nuova coolness – i Monkeys sono riusciti a staccarsi anzi tempo da quel suono troppo chiaramente definibile, suono che avrebbe trascinato l’astronave dell’indie Made In Uk dritta dentro un buco nero fatto di ripetizione continua o goffi tentativi di riciclo.

Proprio con Humbug, gli Arctic Monkeys seppellirono fra i ricordi adolescenziali gli elementi che li avevano catapultati verso il successo mondiale, praticando un harakiri della propria identità, operazione rischiosissima che per molti artisti può significare la fine. Via la mitragliatrice di percussioni, via il riff ripetuto in loop come a riprendere la techno, via la voce da acne. Con Humbug e l’arrivo della ‘quinta scimmia’ Josh Homme, i Monkeys diventarono adulti, non più dei ragazzini strappati alla sale prove per essere gettati in mondo visione. Una svolta decisa verso le sonorità dello stoner americano che tantissimi accolsero arricciando il naso ma che regalarono alla band quello che, con ogni probabilità, rimane ad oggi il loro album migliore.

Catapultati dal leader dei Queens of the Sone Age nello studio Rancho de la Luna, in mezzo al Deserto Mojave, Alex Turner e soci esplorarono una dimensione altra da quella che avevano abitato fino ad allora, verso abissi sonori oscuri. Il ritratto inquietante del quotidiano in Pretty Visitors, la soffocante Dance Little Liar, la raffica di Pretty Visitors, l’ipnotica Dangerous Animals. E ancora, Fire And The Thud, Cornerstone o The Jeweller’s Hand, brani forse in secondo piano ma che, ascoltati oggi, suonano come un’anticipazione delle chitarre baroccheggianti che, in seguito, avrebbero dominato il pop 60’s di Suck It And See, il trionfo di AM o la decadenza di Tranquility Base Hotel & Casino.

Un album, quindi, che non ha segnato soltanto quello che sarebbe stato il percorso della band da quel momento in poi – in cammino verso un vortice continuo, contraddittorio, e per questo straordinario – ma che, allo stesso tempo, ha plasmato il volto del frontman, oggi camaleonte imprevedibile e non più ragazzino spaventato. Inizialmente nascosto dietro la sua Fender, Turner ora con la chitarra ci danza con occhi fissi sulla platea, talvolta addirittura liberandosene come per la resa live di Arabella, dove da vera rockstar assume i panni di un Elvis al rallentatore, tutto pose plastiche e ancheggiamenti davanti al microfono. Così come il suono dei suoi Monkeys, la sua figura ha giocato con il mistero inaugurato da Humbug, abbandonando il taglio a scodella dell’indie kid per trasformarsi in un rocker in pelle e denim o in un crooner brillantinato, ultima vera rockstar della scena mondiale, icona atemporale ma perfettamente attuale, riconoscibile nel suo continuo mutare aspetto e timbro vocale, ormai opposto a quello trascinato dei primi lavori.

Humbug è stato il lavoro che ha annullato ogni possibilità di prevedere i passi futuri dei Monkeys, la band che suicidandosi è costantemente risorta in forme diverse, padroni senza volto di una scena ormai con il fiatone, come quella del rock britannico, in cui ormai solo Turner sembra essere rimasto in grado di tenere alta la Union Jack.

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