I Black Sabbath e il desiderio di scappare e inevitabilmente tornare a Birmingham | Rolling Stone Italia
Black Country Blues

I Black Sabbath e il desiderio di scappare e inevitabilmente tornare a Birmingham

A luglio la formazione originale tornerà a casa per un ultimo concerto. Ecco perché una città all’epoca pesantemente industrializzata, pericolosa, degradata e devastata dai bombardamenti tedeschi è stata fondamentale nel forgiare l’identità del gruppo e di quello che poi abbiamo chiamato metal

I Black Sabbath e il desiderio di scappare e inevitabilmente tornare a Birmingham

La formazione storica dei Black Sabbath

Foto: BMG

Aston è un quartiere di Birmingham, nelle Midlands Occidentali, in Inghilterra. È famoso per l’Aston Villa, l’Aston University e i Black Sabbath. La prima testimonianza documentata del quartiere ha qualcosa di sorprendente per chi conosce il gruppo. Aston è stata inizialmente menzionata nel Domesday Book, nel 1086, come Estone. Secondo il libro, c’era un mulino, una figura ecclesiastica (e quindi probabilmente una chiesa) e un bosco. Questa descrizione vi ricorda qualcosa? Sì, proprio l’inquietante copertina del primo album dei Black Sabbath. Un caso? Certamente. Ma un caso che per una band come quella di Ozzy Osbourne e Tony Iommi ha qualcosa di esoterico.

Tutti gli “ultimi” concerti dei Black Sabbath hanno avuto luogo a Birmingham. È difficile pensare che quello del prossimo 5 luglio non sia quello definitivo. A causa del morbo di Parkinson, Ozzy Osbourne non riesce nemmeno più a camminare e le condizioni fisiche del batterista Bill Ward, paradossalmente il musicista più atteso di questa ennesima reunion, avevano già di fatto impedito che la formazione originale si potesse ritrovare solo pochi anni fa in occasione dell’ultimo tour mondiale.

La storia del rock insegna che ogni movimento è in principio indissolubilmente legato al luogo di nascita dei propri protagonisti. Birmingham non fa eccezione. Se le condizioni di vita di Detroit alla fine degli anni ’60 fossero state differenti, probabilmente gli Stooges e gli MC5 si sarebbero espressi in altro modo, così come lo sarebbero state le visioni di Ian Curtis se fosse cresciuto nella Los Angeles dei Mötley Crüe e non nell’opprimente e squallido contesto della Manchester della metà dei ’70.

Alla fine del Settecento la vicinanza dei bacini carboniferi e dei giacimenti di ferro hanno trasformato la piccola cittadina inglese in un fiorente centro industriale. Allo sviluppo delle fabbriche sono strettamente connessi un rapido incremento demografico e una forte espansione urbana che, negli anni, ha fatto diventare Birmingham la seconda città del Paese per numero di abitanti. Sul finire dell’Ottocento l’area comprendente la parte nord ed ovest di Birmingham e la parte sud ed est di Wolverhampton inizia ad essere chiamata Black Country e ci vuole poco a capire perché: le miniere del South Staffordshire, la lavorazione del carbone, le fonderie di ferro e i centri siderurgici per la produzione di acciaio producono un livello di inquinamento talmente elevato da avere pochi eguali al mondo.

Negli anni in cui nascono John Michael “Ozzy” Osbourne, Frank Anthony “Tony” Iommi, Terence Michael Joseph “Geezer” Butler e William Thomas “Bill” Ward, Birmingham è una città anonima e grigia dell’Inghilterra del Nord, in piena ricostruzione dopo essere stata sostanzialmente distrutta dalle bombe della Seconda guerra mondiale. Aston è una della zone più squallide non solo della città, infestata da bande di malviventi in lotta per il predominio sul quartiere.

Birmingham è nera, puzza di carbone e di alcol e Ozzy se la vede brutta da subito. In famiglia sono tantissimi, a fatica si riesce a mangiare, l’unico divertimento è scorrazzare in giardinetti creati dalla deflagrazione degli ordigni. Uno scenario dickensiano appesantito da una balbuzie che, da una parte, porterà al nomignolo con cui passerà alla storia (fatica a pronunciare il suo cognome e lo trasforma presto in Ozzy), ma dall’altra lo trasforma in un bersaglio, vittima di ogni tipo di abuso, anche sessuale, da parte dei coetanei. Ozzy comprende presto le regole di Aston e un futuro che pare già scritto: seguire le orme del padre fabbro o diventare un delinquente. Prova un po’ tutto, dai lavori più degradanti al crimine (che, come racconta, «mi venne a cercare a casa»), ma non sembra portato per nessuno dei due. Sceglie dunque di dedicarsi alla musica senza immaginare che, in qualche modo, avrebbe finito comunque per lavorare con il metallo come il padre Jack.

Nemmeno Tony Iommi, cui oggi qualsiasi metallaro consegnerebbe le chiavi di casa, se la passava bene. Giovane bullo della scuola (delle cui angherie era stato spesso vittima Ozzy), conosce molto presto la violenza, la sopraffazione, la paura e un’esistenza anonima fatta di lavoro massacrante in fabbrica e conoscenze pericolose. La città e la catena di montaggio fanno crescere la voglia di rivalsa e ne segnano per sempre il fisico e di riflesso quello che sarebbe diventato il suo sound. A 17 anni, durante il suo ultimo giorno di lavoro in fabbrica, un macchinario si inceppa e Tony perde le falangi del dito medio e anulare della mano destra, quella con cui, essendo mancino, fa gli accordi.

«Mi hanno mandato a lavorare alla pressa, perché l’operaio addetto a quella macchina non c’era. Non avevo idea di come funzionasse, appena l’ho toccata la pressa è venuta giù sulla mano e quando l’ho tolta mi mancavano due dita», ha raccontato. «I dottori mi hanno detto: ci dispiace, non potrai più suonare la chitarra. Io mi sono detto: non lo posso accettare, devo trovare un modo».

Iommi si costruisce da solo delle protesi, secondo la leggenda usando una bottiglia di detersivo e pezzi di acciaio, coprendo il tutto con frammenti di una giacca di pelle. La sensibilità ormai è andata, quindi prende delle corde da banjo più leggere, preme molto di più quando fa gli accordi e accorda la sua chitarra tre semitoni più in basso: è così che a Birmingham nasce l’heavy metal, che dovrebbe ricreare in qualche modo il suono cupo e martellante delle fabbriche che lavorano a ciclo continuo. Il resto lo fa il classico annuncio di un ragazzo munito di impianto voce cui Iommi, Butler e Ward rispondono quasi per gioco.

Come sottolinea Eduardo Vitolo nell’introduzione del suo libro Black Sabbath – Neon Knights, «prendete quattro ragazzi, figli di uno dei luoghi più invivibili e mortificanti del Regno Unito, con alle spalle un passato di inquietudini personali e familiari. Fategli leggere un po’ di romanzi di genere (fantascienza e horror in primis) e incuriositeli con una serie di argomenti (occultismo, ucronia, cinema, religione, spiritualità alternativa) da sempre tabù in una società chiusa e moralizzatrice come quella operaia inglese. Otterrete un vulcano di suoni e immagini che saranno la base per la nascita di un genere musicale che da sempre si è nutrito di due ingredienti essenziali: incomprensione e cultura non allineata».

Un po’ come il punk un decennio dopo, il metal nasce e si sviluppa dal disagio sociale e dal desiderio di riscatto di fronte a un’esistenza vuota, caratterizzata da condizioni umilianti o non appaganti. Molti dei maggiori protagonisti della scena hard rock e metal sono nati nella Black Country, da Robert Plant e John Bonham ai Judas Priest, fino a Glenn Hughes e tutti, esclusi Iommi e Ward, hanno cercato di lasciarla più in fretta possibile, tornandoci solo per suonare dal vivo nel corso dei tanti tour.

Eppure, si sa, la casa è sempre la casa, per quanto inospitale e respingente. Come dice a proposito di Napoli uno dei protagonisti di Parthenope di Paolo Sorrentino: è un posto da cui tutti appena possono cercano di fuggire, ma al quale inevitabilmente prima o poi fanno ritorno, magari per vivere gli ultimi scampoli di vita e sentirsi ancora una volta, l’ultima, al centro del mondo. Come proveranno a fare i Black Sabbath per un commiato che sa di fine di un’era: tutto ha avuto inizio qui ed è giusto, dovuto e profondamente poetico che tutto finisca qui. Back to the Beginning, per l’appunto.