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I Blondie hanno anticipato il pop del futuro

Il box set ‘Against the Odds’ permette di riconsiderare la storia della band di Debbie Harry. Criticati perché non abbastanza punk, hanno capito che la musica non era dei puristi, ma dei visionari

Foto: Maureen Donaldson/Getty Images

Alla fine degli anni ’70, i Blondie erano la band più schernita fra quelle della prima ondata punk del CBGB’s: erano troppo pop, non abbastanza rigorosi. Ma dopo il boom di Heart of Glass, all’inizio del 1979, il loro atteggiamento da imitatori-e-fieri-di-esserlo non ha prodotto soltanto una serie di grandi successi radiofonici nei primi anni ’80. Mescolando generi diversi, sono stati pionieri del modo in cui le hit del futuro sarebbero state create. Col senno di poi, i Blondie paiono sempre più visionari.

Ha aiutato il fatto che, in principio, il songwriting era condiviso da tutti all’interno del gruppo. Nella prima incarnazione della band (1974-1982) tutti e sette i componenti scrivevano, con la cantante Debbie Harry e il chitarrista Chris Stein che di solito collaboravano. La coppia aveva un ruolo centrale, ma nessuno era escluso. Per esempio, quasi metà del secondo album Plastic Letters è farina del sacco del tastierista Jimmy Destri. E poi c’erano le cover, elemento fondamentale del loro repertorio, si veda il caso dell’inflazionatissimo reggae di The Tide Is High. Per loro la canzone era più importante dell’autore, secondo un precetto tipico del pop più che del rock.

Ora è uscito un box set, Against the Odds, che raccoglie i primi sei dischi in studio, oltre a un sacco di rarità e un librone con la storia illustrata del gruppo. Inizia con un demo del 1974 di Once I Had a Love, la canzone che sarebbe poi diventata Heart of Glass: è ispirata al modello di Rock the Boat degli Hues Corporation, il primo pezzo disco a raggiungere la vetta della Hot 100 di Billboard. Questa versione è illuminante, se non addirittura grandiosa: è scazzata, col ritmo che conosciamo, il cantato di Harry che sembra scivolare piuttosto che ancorarsi alla musica, i paletti danzerecci dell’epoca che le stanno stretti e Chris e il superbatterista Clem Burke nei panni di un percussionista in jeans scampanati e giacca con colletto all’indiana.

Nonostante tutto, il songwriting dei Blondie era già solido e Harry aveva già trovato un suo stile. In Puerto Rico, un demo prodotto dall’impresario locale Alan Betrock, sul finale lei canta: “Piantala verme, smaterializzati”. Mantiene la calma ma, da vera tipa tosta e sveglia, è pronta ad aggredire. Blondie (1976) e Plastic Letters (1978) sono ancora piacevolmente energici, anche se forse un po’ acerbi. La versione di X-Offender con una falsa buffa falsa partenza di Harry ha più mordente dell’intero album finito e il Private Stock Mix, più pungente, di Little Girl Lies (sempre tratta dal disco di debutto) polverizza la versione inserita nell’album.

Parallel Lines chiude il 1978 in tutt’altra maniera: determinati e disinvolti, qui i Blondie fanno davvero quel pop zuccherosoche a lungo avevano solo finto di suonare. Il produttore Mike Chapman ha dato loro una direzione e i Blondie l’hanno imboccata con entusiasmo, come si legge nelle note di accompagnamento del box. Debbie Harry, in particolare, è sbocciata. E le sue tre diverse ripetizioni della frase “I can’t control myself” in Hanging on the Telephone sono, in effetti, un esempio perfetto di capacità di controllo. Heart of Glass è la più grande alleanza fra rock e disco degli anni ’70: la versione non definitiva inclusa nel box suona trasandata in confronto a quella scintillante del prodotto finito.

Con Heart of Glass i Blondie si sono sintonizzati sul presente e non più solo sul passato. Lo dimostra l’album Eat to the Beat (1979): un anno dopo, Fashion di David Bowie avrebbe richiamato echi della loro The Hardest Part. Fra i pezzi bonus di Autoamerican (1980) c’è Underground Girl, un omaggio gioioso ai punk losangelini X, con Debbie e Frank Infante che gridano una sulla voce dell’altro, nello stile di John Doe ed Exene Chervenka.

Al tempo degli ultimi due album inclusi nel box, Autoamerican e The Hunter (1982), i Blondie avevano ormai finito la benzina. La chimica era svanita, gli impegni in studio e in tour erano sfibranti, e la band si è trovata senza idee. Ma l’ultimo dischetto del box, con varie curiosità pescate dagli archivi, è ancora pieno di cose interessanti, fra cui una cover pulsante e lo-fi di Ring of Fire di Johnny Cash che ricorda molto da vicino i Gun Club. E termina con un terzetto di versioni synth di Heart of Glass, War Child e Call Me (niente voce e batteria, solo suoni sintetici): in passato sarebbero sembrate semplici curiosità divertenti, nel 2022 potrebbero finire in qualche dj set. I Blondie, sempre avanti.

Tradotto da Rolling Stone US.

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