Una pistola puntata alla tempia, incassi volatilizzati, tangenti, folle incazzate. Così il bassista John Illsley descrive in un misto di terrore, ironia e sollievo (per essersene andati) il primo tour dei Dire Straits in Italia. Tour che ha come prologo un’ospitata a Sanremo 1981.
Era il tempo in cui non c’era bisogno di raccontare la favoletta dei superospiti in gara perché i grandi artisti internazionali al Festival ci venivano, eccome, per promuovere i loro dischi. E a volte facevano (in playback, vabbè) addirittura quattro canzoni. È il caso dei Dire Straits, arrivati a Sanremo in un momento di grande popolarità, pochi mesi dopo la pubblicazione dell’album Making Movies, che alla fine dell’anno risulterà il più venduto in assoluto in Italia.
Illsley, non un turnista ma co-fondatore della band e spalla di Mark Knopfler per tutta la vita del gruppo, racconta l’esperienza nell’autobiografia La mia vita nei Dire Straits uscita poco più di due anni fa. È un misto di piccole storie rocambolesche, accuse gravi non provate e qualche iperbole. Non va preso sempre e comunque alla lettera, ma è uno spaccato di cos’era il mondo della musica in Italia in quegli anni e dell’idea che ne avevano all’estero.
«Eravamo gli ospiti d’onore al Festival di Sanremo, che si svolgeva tutti gli anni in Liguria, l’area costiera confinante con la Francia», scrive il musicista. In quell’occasione i Dire Straits “suonarono” per due serate del Festival, proponendo addirittura quattro pezzi tratti dall’album dell’80: Expresso Love, Skateway, Romeo and Juliet, Tunnel of Love.
Il ricordo del musicista non è dei migliori, per usare un eufemismo. «Era un evento, così ci avevano detto, deciso in partenza dalla Mafia, che sceglieva il vincitore della “competizione”, il cui premio era uno spazio in tv nella fascia oraria di massimo ascolto. Noi eravamo semplici ospiti, non concorrenti in gara, e io sono felice che la coscienza di Ed (ovvero Ed Bicknell, il manager, ndr) non sia stata turbata dal fatto di dover decidere se dare oppure no una bustarella ai malavitosi».
Illsley ha un’idea approssimativa di cos’è il Festival di Sanremo, ma ricorda in mondo particolarmente vivido cos’è successo pochi mesi dopo, quando i Dire Straits hanno fatto i primi concerti in Italia. La descrive come «una settimana di delirio totale».
Il manager del gruppo «era arrivato sull’orlo della disperazione e, dato che non era riuscito a tirar fuori dei numeri precisi dal potentissimo organizzatore Franco Mamone, c’era addirittura il dubbio» che la band sarebbe andati in pari. Cifra pattuita: 25 mila dollari a concerto, «anche se suonavamo per folle che andavano dalle trentamila alle centomila persone». Per il bassista la somma «copriva a malapena i costi».
Quell’anno i Dire Straits tennero cinque concerti tra giugno e inizio luglio: il primo proprio a Sanremo (qui il bootleg con la registrazione audio), poi Carrara, Milano, Bologna, Torino. Non si era ancora del tutto usciti dal periodo peggiore dell’industria dei concerti, quelle degli scontri con la polizia e dei cancelli sfondati per entrare gratis. E difatti molti artisti si tenevano prudentemente lontani dal nostro Paese. Il livello di professionalità non era quello attuale.
«Ci rendemmo conto di trovarci in un ambiente sfrenatamente caotico, pericoloso», scrive Illsley. Ricorda in particolare che il giorno del concerto al Vigorelli di Milano 10 mila persone senza biglietto, forse addirittura 20 mila erano ammassate nelle strade attorno al velodromo, «cercando un modo per entrare». Secondo il musicista, «Mamone si stava facendo una fortuna pazzesca con noi, anche se, presumibilmente, una gran parte sarebbe finita nelle tasche di personaggi in abito scuro e occhiali da sole».
Quando i Dire Straits arrivarono al Vigorelli, lo stesso luogo del famigerato concerto dei Led Zeppelin e delle bottiglie molotov lanciate sul palco dei Santana, «tra la folla aleggiava una sensazione di violenza pronta ad esplodere». La ressa di chi cercava di entrare gratuitamente «stava diventando sempre più allarmante. I Carabinieri decisero che era un nostro problema e si tennero a distanza».
Un poliziotto suggerì di aprire i cancelli e fare entrare la gente senza biglietto «in modo da evitare una rivolta o una calca potenzialmente mortale, ma senza garantire che così facendo si sarebbe evitato un disastro». Intanto i Dire Straits guardavano «la baraonda, terrorizzati, mentre la marea di corpi di riversava dentro uno spazio già pieno».
L’uomo del merchandise ufficiale fu costretto a rifugiarsi nel backstage, il suo stand depredato dagli abusivi (nota di colore di Illsley: uno dei gadget contraffatti era una t-shirt con la scritta “Sultans of Swim” al posto di “Sultans of Swing”). Lo spazio adibito a pronto soccorso somigliava a «un’infermeria da campo in una zona di guerra» pieno com’era di gente «con la testa contusa da bottiglie volanti». Il gruppo iniziò a suonare nella speranza che gli animi si placassero, ma i lanci di bottiglie piene di piscio continuarono e fu necessario tenere la folla che premeva anche da dietro il palco facendo roteare mazze da baseball.
Il concerto alla fine «andò benone» e si chiuse, cosa oggi impensabile, con l’esecuzione di un pezzo di una decina di minuti all’epoca inedito, Telegraph Road.
A Bologna, scrive Illsley, il tour manager Paul Cummins si ritrovò «con una pistola puntata alla testa dall’organizzatore locale. Ma lui era l’unico ad essere in allarme. Per tutti gli altri nella stanza, a quanto pareva, era così che si conducono gli affari».
Allo stadio di Torino c’erano secondo la stima iperbolica del bassista «più o meno centomila persone». I Dire Straits, nota il musicista, non avevano mai suonato davanti a una tale folla, eppure «non vedemmo nemmeno una lira dell’incasso». O meglio, videro 25 mila dollari necessari per pagare lo staff. «Fu un po’ irritante, dopo, scoprire che la moglie del sindaco erano state regalate una collana di diamanti e una pelliccia come tangente per lasciarci usare lo stadio».
«Temevamo una catastrofe a ogni concerto che facevano in Italia e, come tour manager, Paul era quasi sempre agitatissimo». Un po’ d’allarme fu procurato da un falò acceso sul prato dello stadio, «ma perlomeno non morì nessuno. Almeno per quanto ne so io. Non ci trattenemmo troppo a lungo per scoprirlo. Mai nella mia vita sono stato così felice di arrivare in Belgio».
Non è finita, perché i Dire Straits tornarono in Italia nel 1983 per il tour di Love Over Gold, «un’altra settimana completamente folle, questa volta con un nuovo organizzatore, David Zard». L’apice della follia, scrive Illsley, fu toccato a Napoli. Risulta invece che il concerto si tenne allo stadio di Cava de’ Tirreni, in provincia di Salerno, a una cinquantina di chilometri di distanza (gli altri furono a Novara, Ferrara, Prato e Roma).
«Il concerto, ovviamente, così ci fecero capire, si poteva fare solo col permesso della Mafia. E, come l’ultima volta in Italia, ci adeguammo per guadagnarci pochi soldi preziosi. Nonostante il pubblico fosse di circa trentamila persone, avremmo finito per coprire solo i costi dei roadie e i conti dell’albergo».
Illsley ricorda le auto parcheggiate in autostrada un chilometro e mezzo prima dello stadio, con la gente che le mollava lì e continuava a piedi. «Noi eravamo a un pelo dallo shock». La zona era stata colpita da un temporale e la band suonò con metà degli ampli e dei pedali inservibili, «anche se, chissà come, nessun sembrò accorgersene». Alla fine del concerto i musicisti furono nuovamente scortati dalla polizia in hotel, «come se stessimo facendo una gara di Formula 1», ma al buio perché «era mancata la corrente elettrica in tutta la città».
Probabilmente sulla scorta di queste esperienze, i Dire Straits non sono venuti a suonare nel nostro Paese in occasione di uno dei tour mondiali più lunghi e ricchi dell’epoca, quello di Brothers in Arms, circa 250 concerti di cui nessuno in Italia. Sono invece tornati per l’ultima tournée, quella di On Every Street. Era il 1992 e a quel punto i tempi erano fortunatamente cambiati, annullando (si spera) anche certi pregiudizi.
L’Italia ha un talento per il dramma e la comicità, scrive Illsley a proposito del concerto a “Napoli” e riassumendo in qualche modo le esperienze nel nostro Paese, talento «che trova espressione ancora oggi in ogni ambito della vita. In qualunque attività, che sia servire un caffè o organizzare un concerto, l’atteggiamento sembra essere: “Perché fare una cosa semplice e diretta e senza complicazioni quando ti puoi divertire e trasformarla in un evento elettrizzante e spiazzante e, col senno di poi, decisamente esilarante?”».