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I Grammy hanno un problema con il K-pop?

Gruppi come i BTS sono regolarmente in cima alle classifiche americane e nei roster delle etichette discografiche più importanti, eppure la Recording Academy li ignora

Foto: Rob Latour/Shutterstock

Lo scorso aprile i BTS hanno pubblicato Map of the Soul: Persona, un album che è subito diventato un caso commerciale. Negli Stati Uniti, il disco dell’ensemble K-pop ha superato in breve tempo le vendite di Homecoming, il live a sorpresa di Beyoncé, conquistando la vetta delle classifiche con il terzo LP di fila in meno di 11 mesi. L’ultimo gruppo a raggiungere lo stesso risultato così rapidamente sono stati i Beatles.

Tuttavia, mercoledì, quando la Recording Academy ha annunciato le nomination per i Grammy 2020, i BTS non sono stati presi in considerazione. È l’ennesima dimostrazione di quale sia davvero la sfida per tutti gli artisti K-pop: vendono di più – e fanno ballare di più – delle controparti americane, ma sono comunque ignorati da tutti i premi del settore. Anche quando il K-pop viene nominato è ridotto a una nicchia – lo scorso agosto, per esempio, gli MTV Video Awards hanno introdotto una categoria specifica dedicata al genere, una soluzione che ha permesso al programma di approfittare dell’enorme e appassionata fanbase, tenendolo allo stesso tempo lontano dalle categorie più prestigiose, come Video of the Year.

L’incapacità di prendere in considerazione il K-pop è in netto contrasto con la realtà quotidiana dell’industria discografica: nell’ultimo anno, praticamente tutte le major americane hanno fatto di tutto per inserire nel proprio roster un artista o gruppo K-pop. Columbia lavora con i BTS; Interscope con Blackpink; Epic ha inseguito Monsta X; Republic ha ingaggiato i Tomorrow X Together, RCA gli Ateez. Il mese scorso Capitol ha pubblicato l’EP dei SuperM, un gruppo che ha inaspettatamente battuto il cantante R&B e re dello streaming Summer Walker, balzando al primo posto in classifica.

Nel frattempo, i BTS continuano a guidare l’invasione coreana degli Stati Uniti. Oltre alla trafila di album al primo posto e i tour sold out negli stadi, il gruppo è riuscito a infiltrarsi nel mondo ultraconservatore delle radio mainstream non una, ma ben due volte. E cercano anche di partecipare al gioco dei Grammy: l’anno scorso il gruppo ha presentato il premio per il miglior album R&B, e il loro Love Yourself: Tear è stato nominato come Best Recording Package.

Niente di tutto questo è bastato a convincere la Recording Academy, che mercoledì non ha considerato quello dei BTS come possibile Album of the Year o Best Pop Vocal Album, e nemmeno per la categoria pigliatutto Best World Music Album. Qualcuno dirà che con le sue sette canzoni Map of the Soul: Persona è troppo breve per i Grammy, ma mercoledì l’Academy ha nominato l’EP di Lil Nas X, un mini-disco che dura appena 18 minuti.

Il problema, comunque, non riguarda solo i BTS. Il pubblico americano non ha mai ascoltato musica tanto variegate, consuma playlist con canzoni che arrivano tanto dalla Corea del Sud quanto da Nigeria, Colombia e Spagna. L’industria musicale è storicamente lenta ad adattarsi ai cambiamenti, ma nell’ultimo anno ha iniziato a pensare globalmente – ha capito, insomma che il pubblico indonesiano, indiano o coreano sarà presto decisivo quanto quello americano per determinare il successo di un artista. I Grammy, come al solito, perdono il passo.

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