Varcando la linea di porta, quell’ultimo pallone calciato da Gonzalo Montiel ha infranto gli argini che a fatica avevano trattenuto l’esondazione di metafore e proclami da parte di giornalisti, commentatori e spettatori. Dall’allineamento dei pianeti evocato dal telecronista Alberto Rimedio — in un firmamento albiceleste, magari — all’ultimo tango di Messi benedetto da Maradona, la cui mano de Dios si tramuta in quella dorata esibita dal buzzurro Martinez.
Taluni evocano il Che e i gauchos della Pampa, talaltri rivendicano trisavoli emigrati a Buenos Aires. C’è poi chi coglie l’occasione per condividere sui social citazioni letterarie e musicali: Borges e Piazzolla, certo, ma anche i nostri cantautori.
Sì, perché c’è stato un tempo in cui la bussola di questi ultimi ha preso a indicare con decisione il sud, conducendoli al di là dell’oceano culturale anglosassone: in particolare a cavallo tra anni ’70 e ’80 (curiosamente, l’epoca dei primi due titoli mondiali della Selección), quando le medesime rotte erano attraversate in senso opposto — e in maniera molto meno metaforica — dagli artisti in fuga dai regimi sudamericani. Una diaspora che avrebbe riportato nel vecchio continente, e soprattutto in Italia, il frutto di quelle suggestioni musicali giunte nei porti argentini con i migranti cubani, creoli, afroamericani e italiani: il tango — «pensiero triste che si balla», secondo la definizione di Enrique Santos Discépolo — e la milonga, sua parente stretta.
Paolo Conte è tra i primi ad accogliere queste influenze di ritorno, così esotiche e stravaganti. Dal tango lo affascinano il duello tra i sessi, la lingua ibrida, il motivo del bar solitario, locus amoenus e horridus allo stesso tempo (così è il suo Mocambo). Ambientato in un ristorante e accompagnato dal bandoneón, il suo primo Tango (1975) narra l’incontro tra un’elegante signora e il suo vecchio amante, destinato ad accettare la sconfitta con lucida tristezza.
Ambientazioni che il musicista-pittore tinge di colori con Blue Tangos (1979) e Alle prese con una verde milonga (1981), in cui omaggia espressamente Atahualpa Yupanqui, «ultimo grande interprete della danza pampera chiamata milonga» conosciuto personalmente al Club Tenco, un porto sicuro per i musicisti sudamericani del tempo. In quello stesso 1981 Conte affida a Bruno Lauzi il brano Argentina, in cui rivive il panorama già raffigurato in Sudamerica (1979) quel «cielo riservato agli emigranti» sul cui orizzonte si misura la rovente disillusione del sogno per i tanti espatriati in cerca di fortuna.
Proprio come gli Italiani d’Argentina cantati da Ivano Fossati nell’LP Discanto (che al Tenco viene incoronato come miglior album del 1990), immigrati di terza generazione in bilico tra due culture, non più italiani ma non ancora argentini: un filo spezzato simboleggiato dal vano tentativo di mettersi in contatto radio con la madrepatria, concluso in un disperato monologo incapace di colmare la «distanza atlantica».
Anche il cantautore genovese utilizza tango e milonga per connotare scenari e personaggi, spesso sottolineandoli con strumenti che imitano il bandoneón (fisarmonica, harmonium, organetto), come per la «femmina in Buenos Aires con gli occhi che fan moneta» del brano L’angelo e la pazienza (1996), così diversa dalle donne che «vanno e vengono» nel porto della capitale, descritte da De Gregori in Buenos Aires (1979). Melodie lente, quelle di Fossati, cadenzate dal suo tipico canto che trattiene il tempo, a sottolineare ulteriormente il carattere sensuale e nostalgico di quei temi: si ascolti Notturno delle tre (1992), quasi una milonga, e il Tango disorientato (2001) interamente strumentale e debitore del Piazzolla di Vuelvo al sur (1988).
Ma l’Argentina è anche il luogo in cui musica e letteratura si legano a doppio filo proprio attraverso i loro esponenti più autorevoli: si pensi alla feconda quanto riottosa collaborazione tra Astor Piazzolla e Jorge Luis Borges per gli album El Tango e Para las seis cuerdas (entrambi del 1965). Al più influente scrittore argentino di sempre, e al suo tempo inventato, si ispira chiaramente Roberto Vecchioni. Già Ninni (1978) parte da un racconto borgesiano, Il libro di sabbia (1969), in cui l’autore siede su una panchina con se stesso più giovane; Vecchioni si ritrova invece su un treno con suo padre, sua madre, suo fratello e se stesso, vent’anni prima. L’autore bonarense ricomparirà periodicamente in tutta la produzione del cantautore milanese: basti ricordare Dentro gli occhi (1982), Io non appartengo più (2013) e Il miracolo segreto (2013) ispirato all’omonimo racconto.
Ma è Francesco Guccini quello che più di tutti entra in simbiosi con l’Argentina, non solo per via del suo lungo sodalizio con Juan Carlos “Flaco” Biondini, proprio uno di quei musicisti esiliati durante gli anni della dittatura. Già ventenne, infatti, il modenese si era innamorato dello stesso Borges e del suo Aleph, nelle cui pagine aveva incontrato i temi del tempo e del destino, della metafisica e dell’infinito, della memoria e dei labirinti.
Lo scrittore, menzionato esplicitamente in Via Paolo Fabbri 43 (1976), sarà anche anello di congiunzione con l’epica gauchesca di Bartolomé Hidalgo, Estanislao del Campo, José Hernández e Ricardo Güiraldes, il cui Don Segundo Sombra (1926) ispira il gucciniano Antenòr (1981), giovane gaucho sfidato a duello da «un uomo mai visto prima» per «una donna non ricordata».
Ed ecco che ricompare il tango. Non più quello da balera suonato dal giovane Guccini orchestrale, ma la danza autentica di cui il madrelingua Biondini firma la musica nel meraviglioso Scirocco (1987). Accompagnato dal bandoneón di Juan José Masolini su ritmo di milonga, il brano propone un testo che esemplifica tutta l’affinità tra la poetica del cantautore e quella tanguera: il «bar impersonale» stavolta è la versione bolognese del bodegón argentino, mentre l’«abito di percalle» cita i tanti percal che abbigliano le danzatrici argentine. La melodia declina inesorabilmente dopo repentine ascese, replicando l’andamento tipico del tango che riflette il fatalismo e il piacere morboso della propria angoscia. Seguiranno Tango per due (1990), la chacarera trunca di Luna Fortuna (1993), Canzone delle colombe e del fiore (1996) e Primavera ’59, che arricchisce l’album Stagioni (2000) in cui si celebra un altro grande argentino, Ernesto Che Guevara.
Deriva ancora da Borges lo stesso titolo L’ultima Thule (2012) per l’epilogo della discografia gucciniana, prima delle recentissime Canzoni da intorto. Ma il senso più profondo del legame tra il cantautore dell’Appennino e quella terra che si spinge fino alle Ande non può che essere iscritto nei versi di Argentina (1983). Nel Paese visitato assieme all’amico Flaco, Francesco percepisce un fortissimo déjà vu: «quella nostalgia che prende a volte per il non provato», e che è allo stesso tempo un’illusione del «già vissuto».
L’Argentina di Guccini, in definitiva, è un’Italia degli anni ’50 traslata in quell’emisfero all’inverso, nel cui cielo australe «la capovolta ambiguità di Orione» non può più farci da guida. Sarà quello il firmamento albiceleste in cui si allineano i pianeti?