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I Run-D.M.C. non erano meno rock della tua band preferita

‘King of Rock’ usciva esattamente 40 anni fa, “vandalizzando” la vecchia idea di rock e contribuendo ad abbattere i confini tra generi

Foto: Michael Ochs Archives/Getty Images

Ultimamente molti si chiedono dove sia finito il rock, quello coi chitarroni, i capelli lunghi, le borchie. Ma siamo sicuri che quello sia rock? Non è invece quello di Chuck Berry o di Howlin’ Wolf? Non è che l’idea media di rock è quella del bianco ben pasciuto? È indubbio che la trap nera, soprattutto per il lato poco rassicurante, riprenda molto del rock delle origini e dei suoi estremi, ma in altri tempi c’è stato un trio del Queens che aveva già espresso bene il significato vero del rock. Parliamo dei Run-D.M.C. e di King of Rock, il loro secondo lavoro di cui oggi ricorre l’anniversario.

Prodotto da Russell Simmons e Larry Smith, quindi in casa Def Jam, la storica etichetta che ha dato i natali non solo al trio e a tutta la nuova scuola hip hop, ma anche al crossover (vedi gli Slayer nel loro roster), il disco è uno strappo notevole rispetto al debutto dei Run-D.M.C. Se in quel caso i tre stupivano nel portare a casa un risultato strepitoso affidandosi solo a drum machine e rap al fulmicotone, con un minimalismo coraggiosissimo e molto hardcore, è anche vero che l’idea di scratchare su assoli di chitarra distorta metallara era un atto di sfida allo status quo. Contenuta nel debutto, Rock Box fece gridare al miracolo come uno dei primi esempi moderni di miscela tra musica nera e bianca, un brano che a tutti gli effetti ha dato inizio allo sgretolamento dei “muri” musicali e razziali (cosa che verrà esplicitata con l’abbattimento del muro che separa il trio e gli Aerosmith nel video di Walk This Way, che consolidò con prepotenza l’inizio di una nuova era).

In un periodo in cui MTV era la bibbia dei nuovi rocker, ecco che i Run-D.M.C. penetrano da rapper nel sistema proprio col video di Rock Box, diventando a tutti gli effetti un caso e portando il rap sotto i riflettori come normalmente accadeva col rock bianco. L’idea geniale di spingere verso quei territori sonori non è come si potrebbe pensare di Rick Rubin (che nel metal ci bazzicava), ma di Larry Smith, dopo continue “session” di screwdriver ed erba. Porta la sua band, gli Orange Krush, a creare basi per il trio anche contro la loro volontà, visto che sia Joseph “Run” Simmons che Darryl “D.M.C.” McDaniels sono contro l’uso delle chitarre. Corey Robbins, capoccia della Profile Records, decide che il titolo dell’album deve essere King of Rock per scioccare un po’ tutti: ma come, questi non fanno rap? E come si permettono di dichiararsi re del rock?

Molto chiaro il perché: i Run-D.M.C. si riprendono quello che l’industria bianca ha scippato loro. Il rock non nasce con Elvis, il rock sono Chuck Berry, Little Richard, Jimi Hendrix, e a dirla tutta uno come Bo Diddley nei suoi brani già “rappava”, se non vogliamo proprio scomodare le radici del blues che ha fatto campare di rendita i Rolling Stones e i Led Zeppelin. I Run-D.M.C. ricordano a tutti, soprattutto ai ragazzi, che i neri sono i sovrani assoluti di tutta la musica “giovane” (perché il rock di per sé lo è sempre).

Nel video low budget di King of Rock i due si aggirano in un museo del rock’n’roll una decina d’anni prima che ci fosse veramente una sede della Rock and Roll Hall of Fame, vandalizzandolo: a parte buttare giù porte, spegnere una performance video di Jerry Lee Lewis guardandola con estremo disappunto, gettare la loro proverbiale bombetta su dei calchi dei Beatles e disintegrare gli occhiali di Elton John, i due ne hanno anche per i neri. Per esempio Michael Jackson, del quale calpestano uno dei guanti. All’epoca anche Jackson (che ancora non era “sbiancato” del tutto) e Prince cercavano di abbattere i muri tra i generi, sulla scia dei Funkadelic anni ’70, ma non facevano hip hop. E quello che mancava era soprattutto l’approccio: troppo elaborati nella musica, troppi soldi spesi per le loro follie da megalomani. I Run D.M.C. ti riportavano nella cantina, all’essenza appunto del rock. Sudore, potenza, diritti al sodo senza tante cazzate. Alla fine del video, oltre a minacciare con una chitarra elettrica il cameraman, taggano con lo spray i muri per sottolineare – se ce ne fosse ancora bisogno – chi comanda.

L’album è importante perché rappresenta una spaccatura. Rispetto al debutto, c’è una produzione più pulita e chiaramente pensata per essere commercialmente appetibile. L’idea di unire il rap al rock sarà pure interessante, ma ovviamente rischia – inserendo una musica così codificata come il rock – di fermare la spinta innovativa del gruppo, sviandolo dalle radici da b-boy. Ma a parte Jam-Master Jammin’, che dimostra l’esatto contrario, il disco è in realtà un esperimento che spinge il gruppo verso altri lidi, come in Can You Rock It Like This, che è una specie di ibrido hip hop-synth pop (anzi new romantic, quasi in odore di Duran Duran), tra l’altro scritto da un LL Cool J appena sedicenne. Non c’è solo l’ibrido rock-rap, ma anche l’innesto dancehall con Roots, Rap, Reggae e il featuring di Yellowman, cosa che a molti fa storcere il naso, ma è a tutti gli effetti un altro tentativo di andare oltre il “precotto” (e ricordiamo che il primo brano Rock the House è a tutti gli effetti un curioso esperimento dub-hip hop che riprende King of rock trasformandolo in un trip a base di delay).

I beats non vengono messi da parte: You Talk Too Much e It’s Not Funny fanno un uso massiccio della DMX, anche più potente e versatile di prima, per non parlare dei testi che in brani come You’re Blind si rifanno alla denuncia sociale, che è sempre presente, anche se ammorbidita per meglio arrivare a qualsiasi orecchio, come nella fumettistica It’s Not Funny. Il finale Darryl and Joe che anticipa la nuova scuola dell’hip hop, con scratch, synth, campionatori e rock è quasi una demo di tutte le possibilità sonore dei Run-D.M.C, che col successivo Raising Hell troveranno una quadra per uno stile inconfondibile e imbattibile.

Tutto si può dire di King of rock, ma non che non sia costruito perfettamente per entrare come un cavallo di Troia nel mainstream, cambiandone le regole e spostando il consenso di massa su una fruizione priva di preconcetti, ispirando non solo i gruppi crossover degli anni ’90 (che potremmo ad esempio monitorare nella colonna sonora di Judgment Night), ma anche i loro stessi compagni di etichetta come i Beastie Boys che nel pluripremiato Licensed to Ill si appropriano di Slow and Low, un brano registrato come provino provino per King of Rock che poi non ha trovato spazio nel disco.

Paradosso dei paradossi, i Run-D.M.C. alla fine sono entrati davvero in quel museo, finendo nel 2009 nella Rock and Roll Hall of Fame tra lo stupore di molti hiphoppers (e senza esibirsi per rispetto a Jam Master Jay morto nel 2002, ma con un discorso di accettazione che va oltre ogni commozione). L’emulo Kanye West che vorrebbe essere il king ha solo da imparare da loro.

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