“My mind is on fire, when I oughta retire?”. Potremmo forse limitarci a questa verso di Frenzy per riassumere il momento artistico e di vita di Iggy Pop, ma sarebbe troppo semplice. Se è vero che più o meno dai tempi di Avenue B Iggy ha cercato sempre più di unire il personaggio alla persona, è anche vero che nell’ultimissima parte di carriera ha frammentato ulteriormente un percorso che, solo in apparenza, si basa da sempre sull’assioma: Iggy è stupido, è puro istinto. A volte ci prende e altre no.
Eppure, che Iggy Pop non fosse stupido lo sapeva pure l’amico Lou Reed, il primo a parlarne in certi termini nel corso di lunghe chiacchierate con Lester Bangs. Perché Iggy stupido non lo è mai stato. Oltre ad essere colto quanto e forse anche più dello stesso Lou e di David Bowie. A differenza loro, però, non ha mai fatto molto per ostentarlo o, semplicemente, per ammetterlo a se stesso. Se Free ci aveva quindi consegnato un artista che pareva pienamente consapevole del passare del tempo e che, in quel caso sì, ostentava di sentirsi libero di essere ciò che era diventato, ancora una volta con Every Loser Pop ci tiene a rimarcare il ruolo di re dei nichilisti e di quel do-it-yourself ampiamente anticipato in compagnia degli Stooges sul finire degli anni ’60. È quasi come se ogni volta in cui si mostra più vulnerabile, subito dopo si senta in dovere di dimostrare il contrario.
Eppure, se alla fine degli anni ’80 la parola segreta per accedere a certi circoli di Seattle era il nome di Iggy Pop, è perché tutta la sua carriera si era mossa lungo un unico principio, quello dell’autenticità. Non è che l’Iggy Pop di Every Loser non appaia autentico. Semplicemente si ha spesso il sentore di un passo indietro rispetto a quello precedente. Un po’ come quando la formazione degli Stooges tornò insieme e non si limitò a qualche tour celebrativo, ma decise di comporre nuova musica. Iggy aveva fatto tanto per riabilitare la propria figura artistica e quel disco terribile finì per sembrare lo scimmiottamento di qualcosa di sacro.
Every Loser, in questo senso, spiega bene questi concetti. La sensazione è che Iggy, soprattutto dopo la morte di Bowie, abbia preso piena coscienza del fatto di essere invecchiato e di dover fare i conti con la propria uscita dalle scene, ma che non si rassegni ad essa. Se guardiamo agli ultimi album della sua carriera, con e senza Stooges, ne esce un artista in piena lotta tra le proprie anime. Tra quella più visibile a tutti, fatta di un corpo sempre esibito, ma anche sempre più in dissoluzione e l’immagine che ha dato di sé per una vita, quella del coglione nichilista che ogni volta può essere l’ultima. E, a ben vedere, sembra quasi che l’Iggy più a proprio agio oggi sia quello di album come Après o Préliminaries, così come quello di gran parte degli episodi di Free.
Non a caso, i brani migliori di Every Loser sono quelli più introspettivi. Quelli dove cerca di fare l’Iguana di un tempo sono belli per l’arco di qualche minuto, ma perdono subito forza. Basti ascoltare Neo Punk, brano sarcastico che si scaglia contro chi oggi si professa punk coi macchinoni e i capelli blu. Fa sorridere, ma le invettive sono altra cosa. La stessa cosa valeva per Ready to Die, dove svettavano i brani più dark come Unfriendly World e The Departed.
Intendiamoci, fa sempre piacere sentire Iggy iniziare un brano con frasi come “Got a dick and two balls, that’s more than you all”, ma forse Iggy resta l’unico artista vivente in grado di poter concludere la propria carriera alla stregua del Johnny Cash delle American Recordings. Solo che forse non l’ha ancora accettato. In tal senso, la vicinanza del produttore Andrew Watts, Rick Rubin dei giorni nostri, potrebbe aiutarlo non poco. Anche lui, tuttavia, deve comprendere quale sia l’anima preponderante di Jim Osterberg. Parlare a Jim e non a Iggy, insomma.
In una recente intervista, Pop ha dichiarato di essere stato contattato dal produttore per lavorare al nuovo album di Morrissey. A un certo punto, pare che Watts gli abbia chiesto: sei pronto a tornare quello che sei? Una classica domanda alla Rick Rubin, per l’appunto. Quello che forse anche Watts non ha ancora compreso è che per dare vita al suo capolavoro, al suo personale Blackstar, forse Iggy deve dimenticarsi della parte più cazzona di sé, quella alimentata in fase di produzione e dai media di mezzo mondo, e dare campo a quella da crooner, che fino ad ora abbiamo intravisto a sprazzi.
Certo, verranno meno i commenti tipo «Iggy è tornato a fare se stesso», i magazine non musicali ne parleranno molto meno e qualcuno si lamenterà del fatto che la vecchiaia abbia rincoglionito anche l’ultimo baluardo del rock’n’roll. Ma forse si compirà finalmente la tanto agognata unione tra Iggy Pop e il suo personaggio. Per uno che ha letto libri come The Importance of Being Earnest di Oscar Wilde e Ecce homo (Come si diventa ciò che si è) di Nietzsche non dovrebbe essere poi così complicato.