È un’immagine che un tempo era rara se non paradossale, ma che oggi non stupisce più nessuno: un presidente che mette una medaglia al collo d’un cantante rock. È successo ieri, quando Joe Biden ha conferito a Bono degli U2 e a una ventina d’altre personalità pubbliche la Presidential Medal of Freedom, la più alta onorificenza civile degli Stati Uniti.
Da anni ormai Bono viene premiato per il suo impegno civile e allo stesso tempo odiato per la vicinanza alla politica e al capitale, apprezzato per il pragmatismo e detestato perché si sporca le mani. Per Roger Waters è «una merda enorme», colpevole di aver ricordato in concerto le vittime della strage del 7 ottobre. Bono è Bono, concreto e iperbolico, pragmatico e sognatore, santo e paraculo, un venditore porta a porta di canzoni e idee.
Mentre Biden lo premiava, l’Atlantic pubblicava un suo saggio intitolato “The Gorgeous, Unglamorous Work of Freedom” in cui si definisce un actualist, una parola che potremmo tradurre liberamente con realista: non un attivista digitale che si posiziona sempre dalla parte giusta, ovvero dove tira il vento dell’indignazione quel giorno, ma uno che sacrifica la propria coolness pur di raggiungere risultati concreti, coprendosi all’occorrenza di ridicolo e insulti. Uno che ha scelto di disfarsi da ogni imbarazzo pur di fare cose.
Libertà, scrive Bono, è una parola che ricorre fin troppo di frequente nel rock anche se, «ammettiamolo, la libertà a cui sono interessati i musicisti è soprattutto la loro». E poi: «Quando noialtre rockstar parliamo di libertà, ci riferiamo il più delle volte al libertinismo e non alla liberazione». Lui però è cresciuto nell’Irlanda degli anni ’60 e quindi come i suoi coetanei era affamato di libertà, quelle che non avevano: politiche, religiose e ovviamente sessuali. «Il rock and roll era una promessa di libertà che non poteva essere arginata, né silenziata».
Figlio d’una generazione che credeva nel progresso inarrestabile dell’umanità verso la libertà e l’uguaglianza, nonostante millenni di storia dimostrassero il contrario, Bono ha conosciuto l’attivismo quand’aveva 18 anni, ai tempi delle manifestazione anti-apartheid, e s’è fatto un’educazione andando nell’Africa minacciata dall’Aids. Ha poi lanciato One e (Red) e ha deciso di operare in modo pragmatico, ovvero «coinvolgendo un’ampia varietà di politici di ogni schieramento, facendo la stessa cosa con i soggetti economici per assicurarci che i medicinali arrivassero a chi ne aveva bisogno, che potessero permetterselo o meno».
Non è buonismo, è bonismo. Ed è una strategia che il cantante non ha mai smesso di usare. Al posto di giudicare da fuori col ditino alzato o postare un meme e incassare cuori e like, si è sporcato le mani, beccandosi gli insulti di chi non ha sopportato di vederlo al fianco dell’allora presidente George W. Bush. Nel saggio, il cantante ricorda che grazie al President’s Emergency Plan for AIDS Relief voluto da Bush, 26 milioni di persone sono sopravvissute nonostante l’HIV. Perché anche quando la libertà si pavoneggia, barcollando con un drink in mano e un sigaro in bocca, la si deve perdonare se porta risultati.
Mentre l’America di oggi s’interroga su cos’è la libertà (libertà riproduttiva o libertà dai lacci del governo?), «in altre parti del mondo la gente sta letteralmente morendo per essa». Bono cita l’Ucraina e domanda: le nostre vite valgono la lotta per la libertà contro i fucili e le bombe di Putin? Cita il Sudan, la Siria, lo Yemen. E Gaza, senza tirare in ballo la parola genocidio: «Per quasi vent’anni il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha usato la difesa della libertà di Israele e del suo popolo come scusa per negare sistematicamente quella stessa libertà e sicurezza ai palestinesi, una contraddizione autolesionista e mortale che ha portato a un osceno azzeramento della vita civile che la gente di tutto mondo può vedere quotidianamente sul proprio smartphone. Deve esserci libertà per gli ostaggi israeliani, il cui rapimento da parte di Hamas ha scatenato questo cataclisma. E deve esserci libertà per il popolo palestinese. Non ci vuole un profeta per prevedere che Israele non sarà libero finché non lo sarà anche la Palestina».
La libertà, dice Bono, è una faccenda complicata. Arrivarci è un lavoro molto più difficile di quel che si crede. A volte, anzi forse il più delle volte va male e quindi è più facile fare come ha fatto lui in passato: «Parlare a vanvera prima di sapere le cose era parte dell’attrattiva esercitata dal rock and roll. Pensavo che essere ascoltato fosse la cosa più utile che potessi fare, forse perché non sapevo fare altro». È una strategia che non ha portato ai risultati sperati. Bono l’ha capito quando Paul McGuinness, allora manager degli U2, gli ha chiesto esasperato: «Questa volta cos’è, Bono? È il turno di Rock Against Bad Things?».
Pur continuando ad apprezzare quelli che chiama gesti poetici, Bono ha sostituito il simbolismo con l’attivismo. «Ogni mese arriva a casa una qualche petizione per una causa assolutamente meritevole, ma non sono uno che ne sottoscrive tante. Sono più propenso a organizzare che ad agonizzare». Meglio insomma la strategia e la tattica alla rappresentazione simbolica del mondo, anche se incazzata e dalla parte giusta. Essere un actualist («pensavo d’avere inventato la parola finché non l’ho trovata sul dizionario») significa essere una vita di mezzo tra un idealista e un pragmatico. E comunque, scrive, alla fine non sono le grandi personalità a cambiare le cose, ma i movimenti. Qualcuno però li deve pur alimentare, lavorandoci su e finanziandoli «facendo salire a bordo i capitalisti».
C’è una celebre massima di Martin Luther King che dice più o meno che l’arco dell’universo morale è ampio, ma si piega inesorabilmente verso la giustizia. Col tempo Bono ha capito che non è vero e che ci devono essere persone particolarmente cocciute che lo piegano con la forza e col lavoro, quel bendetto arco. Perché alla fine contano i risultati, non rappresentarsi dalla parte dei buoni. Viene in mente quel che scriveva tempo fa nel suo libro Surrender: «Non ricordo chi sia ad aver detto che il compito dell’artista è descrivere il problema e non risolverlo, ma chiunque fosse, non lo stavo ascoltando. Io voglio stare con le persone che passano dalle parole ai fatti, che riescono a migliorare le cose. Mi piace la funzionalità».