Franco Mazzucchelli si è servito di sculture gonfiabili in PVC per destare lo stupore del pubblico e cambiare la percezione dello spazio esistente attraverso l’arte. L’abito gonfiabile in lattice sfoderato da Sam Smith agli ultimi Brit Awards non è di Mazzucchelli (peccato), ma del designer Harri, noto per i capi dalle proporzioni distorte, in equilibrio tra moda e scultura. L’intenzione dello stilista, e prima ancora del cantante, è simile nella sostanza a quella del land artist milanese: dilatare l’opera per ampliarne la portata e coinvolgere l’osservatore.
Sì, Sam Smith sta cercando di coinvolgerci in una riflessione di ampio respiro su temi roventi come stereotipi di genere, fluidità sessuale e body positivity. L’abito gonfiabile dei Brit Awards, nello specifico, punta il dito contro le preoccupazioni ossessive che la società impone nei confronti dell’immagine, dando luogo a disturbi da dismorfismo corporeo nei giovani (dunque nessun riferimento forzato al costume in vinile indossato da David Bowie nel ’73, disegnato da Kansai Yamamoto e immortalato in celebri servizi fotografici da Masayoshi Sukita e poi da Herb Ritts). Non sono mancate le irrisioni sui social network e non solo. Sam Smith è diventato improvvisamente un nemico da combattere.
Il cambio d’immagine di Smith è a dir poco radicale. Si è esibito ai Grammy indossando un costume da diavolo sulle note di Unholy, in duetto con Kim Petras, e suscitare indignazione con una performance che su Twitter è stata definita “satanica” da esponenti della destra americana come il senatore del Texas Ted Cruz e la deputata repubblicana (e trumpiana) Marjorie Taylor Greene, che ha parlato di cospirazione pro-vax poiché subito dopo l’esibizione è andato in onda uno spot della Pfizer. La CBS e la Federal Communications Commission hanno ricevuto lettere di protesta e persino la Chiesa di Satana ha sentito la necessità di commentare lo show attraverso le parole del magister David Harris, che l’ha liquidato con un «niente di speciale». Anche il caro Morrissey è salito sul carro della polemica, accusando l’etichetta Capitol di concentrarsi troppo sulla promozione del «satanismo di Sam Smith» fregandosene del suo disco Bonfire of Teenagers, ancora senza una data di pubblicazione.
Non è andata meglio con l’esibizione al Saturday Night Live, vista la consequenziale pioggia di tweet omofobici e transfobici. Al fianco di Smith per il suo singolo di maggior successo c’è Kim Petras, prima artista transgender a vincere un Grammy, diventata oggetto di morbose attenzioni mediatiche già in tenera età per via del suo percorso di transizione precoce.
Sotto i post Instagram del cantante ì, molti fan auspicano il ritorno del soulman delle origini, ma per Sam Smith la musica è oramai cambiata. Di fatto uno degli interpreti di maggior talento e successo degli ultimi anni sta scatenando il caos, dalla politica alla religione, e l’impatto di questo suo exploit dissacratorio sta generando reazioni isteriche a diversi livelli. Come riportato dal quotidiano britannico Mirror, Noel Gallagher, rispondendo a una domanda sullo stato attuale delle cose, ha sbottato: «Le classifiche sono dominate dal pop. Ma purtroppo le popstar al giorno d’oggi sono dei cazzo di idioti». Incalzato dal cronista, ha poi fatto nome e cognome: Sam Smith.
Esagerando con i look si dovrebbe finire per diventare icone di coolness, ci insegna Harry Styles che sulle pose ambigue e gli abiti gender fluid ha costruito lo status di sex symbol. Se sei “fluido”, magro e bello come l’ex One Direction sei comunque nel flusso delle idee dominanti, mentre se hai una fisicità non conforme sei una voce fuori dal coro e meriti la gogna? «Ho passato la vita a nascondere il corpo», ha spesso dichiarato Smith. Va da sé allora che dietro ai corsetti, ai copri-capezzoli, agli abiti da donna che tanto hanno agitato le acque non ci sia soltanto il sacrosanto gusto per la provocazione. Nella “deformazione” professionale che Sam Smith porta sul palco il corpo diventa esso stesso opera. Una tela bianca – all’occorrenza fucsia – su cui scrivere in capslock affermazioni forti, poco importa che abbiano implicazioni socio-politiche, ciò che conta è che siano liberatorie per colui che le sta esprimendo. Oltre le gambe (in giarrettiera) di Sam Smith c’è di più.
C’è un bisogno viscerale di verità e di identità verso il quale il cantautore britannico ha iniziato a muoversi già nel 2019, quando ha annunciato al mondo la propria identità non binaria, di non sentirsi cioè né maschio né femmina: «Per favore non chiamatemi con il pronome maschile, ma usate il neutro they/them». Il percorso verso l’auto-accettazione è fatto di grammatica e di eccessi, ma oltre a questa narrazione per immagini basata sui colpi di scena tanto cara al pop ci sono anche le canzoni, tracce di una trasformazione che solo oggi possiamo definire annunciata.
Già ai tempi dell’esordio con Latch, insieme ai Disclosure, Smith traduceva in versi le sue emozioni: “Ora che ti ho nel mio spazio non ti lascerò andare”. Dirà in un secondo momento che «nelle mie canzoni ho sempre parlato degli uomini di cui mi sono innamorato». Siamo passati dalle ballate romantiche e sentimentali ai ritmi dance e ai testi espliciti, è vero, ma un filo conduttore c’è sempre stato.
Dopo il premio Oscar nel 2016 per la bondiana Writing’s on the Wall, con tanto di dedica alla comunità LGBT; dopo l’appello all’accettazione dell’omosessualità nel 2017 con il brano Him tratto dal secondo album The Thrill of It All; dopo il feat con Calvin Harris che ha fatto sognare gli iscritti al club del bromance e dopo gli esperimenti con il make-up sui social, per Smith è giunta l’ora di una totale liberazione emotiva, sessuale e spirituale da coronare con l’ultimo disco Gloria. Uno spartiacque pop nella forma, riot nella sostanza, tra testi dissacranti, attestazioni queer e video musicali politicamente scorretti. La metamorfosi del bruco in farfalla è avvenuta nel tempo al netto di non poche sofferenze. Ecco perché ciò che adesso ci importa è soltanto che Sam Smith si stia divertendo tantissimo.