Avete presente le curve a 90° che faceva Kit di Supercar? Ecco, Machine Gun Kelly, uno degli attori principali nell’arena del rap mainstream, ha fatto la stessa cosa con la sua musica, una virata verso un pop-punk più lucido, smaltato e scintillante. Questo grazie a un’amicizia con Travis Barker, il batterista dei Blink-182 che è divenuto, a quanto pare, una sorta di suo – ehm – guru musicale e non.
A sancire ufficialmente il cambio di rotta è un album uscito lo scorso autunno, Tickets to My Downfall, top seller negli Stati Uniti, ma che in Italia (dopo un piazzamento lampo nella Top 20 della classifica FIMI) è al momento assestato nel limbo intorno alla posizione numero 80. E ora arriva online l’operazione Downfalls High, un film musicale che vede MGK – all’anagrafe statunitense Colson Baker – dietro alla macchina da presa in veste di regista esordiente, ma anche di narratore e performer. Con lui in questa impresa troviamo ovviamente Barker (che partecipa anche all’album), i rapper Mod Sun, Trippie Redd, Iann Dior e blackbear, il tiktoker Lil Huddy e l’attrice Sydney Sweeney.
Machine Gun Kelly, mesi fa, ha detto a proposito di quest’opera cinematografica, mostrando un’invidiabile sicurezza di sé: «Stiamo facendo il nuovo Grease pop-punk». E, in effetti, Downfalls High non è certo il nuovo Quarto potere del pop-punk. È piuttosto un ambizioso (forse un filo troppo, almeno a parole) lungo video-album (Gainsbourg con Melody Nelson docet, se vogliamo andare molto indietro nel tempo, per non parlare di Beyoncé o degli Arcade Fire, per fare solo pochi nomi) che accompagna e rende visivamente Tickets to My Downfall, cercando di implementare una storyline che tenga tutto insieme. Niente di rivoluzionario o innovativo, ed è anche per questo che forse Machine Gun la fa leggermente fuori dal vaso (si perdoni il francesismo) quando arriva a dichiarare che una cosa simile forse non si vedeva dai tempi di The Wall dei Pink Floyd. Ma tant’è.
I 49 minuti (titoli di coda compresi) di Downfalls High scorrono piuttosto rapidamente e l’effetto finale è quello di avere visionato una stagione intera, ma zippata in una cartella compressa, di un teen drama in puro stile anni Zero declinato in musical: pensate a una sorta di Dawson’s Creek meets The OC con punte emo-drammatiche a buon mercato (amore sui banchi di scuola, gravidanza indesiderata, morte prematura, emarginazione da parte dei coetanei, autolesionismo, depressione, ma la droga, stranamente, è appena accennata in qualche testo), in cui la storia procede canzone per canzone. E la musica è la degna, coerentissima, colonna sonora di un prodotto “di genere” così concepito: pop-punk, molto – ma molto – pop, con suoni così solari e radiofonici da necessitare l’uso di occhiali con lenti oscurate. E con un occhio attentissimo alla contemporaneità delle chart, fatta di rap e trap.
Siamo senza il minimo dubbio nel reame del mainstream più spinto: cosa che non si vedeva da tempo in riferimento al pop-punk. Un genere che sembrava retrocesso rispetto ai fasti di fine anni ’90 e primi 2000 oggi non è vintage o modernariato come si potrebbe pensare, ma è ancora in grado di generare ottimi numeri a livello commerciale. Questo anche in virtù, come nel caso di MGK, di un palese abbattimento dei confini con il rap.
Cosa significa questo? Che il pop-punk probabilmente sta ancora una volta cambiando pelle: dalle sue origini più ruspanti negli anni ’80-’90, ha già subito diverse mutazioni a partire da quella post-Green Day, poi quella con l’avvento dei Blink-182 e della loro progenie, poi ancora con la quasi fusione con la cultura emo negli anni Zero. Ora è la volta dell’unione con il rap, come a volere dimostrare che data una base fatta di melodie e una certa energia, che resta invariata, è possibile modificare la formula finale grazie a una versatilità che è in grado di implementare elementi esterni, spesso di natura mainstream.
Certo continueranno a esistere, nella loro nicchia e col loro zoccolo duro, i gruppi fedeli al verbo di Screeching Weasel, Mr T Experience, Ramones, Queers e Jawbreaker – in sostanza il pop-punk più working class e di base. Ma è evidente che le sue emanazioni più rilevanti a livello di commerciabilità, successo di classifica e consenso di massa hanno un animo mutaforma e plasmabile – come del resto, a ben pensarci, è giusto che sia: il pop-punk è fin dalle origini un genere di frontiera in cerca dell’abbattimento di alcuni paletti rigidi tipici del punk-rock. E la sua mission, come direbbe un CEO, è quella di navigare superando gli iceberg delle limitazioni da manuale e arrivare col suo appeal ai ragazzi più giovani. Come un buon teen drama.