Una notte del gennaio 2019 Paul Simon s’è svegliato di soprassalto. Nel sonno, una voce gli aveva suggerito che il titolo del suo progetto successivo sarebbe stato Seven Psalms. All’epoca Simon s’era sostanzialmente ritirato dalle scene e non aveva per le mani nulla, se non un breve riff di chitarra acustica che suonava a casa sua a Wimberly, Texas. S’è alzato in piena notte e scritto il titolo su un foglio. A quel punto, frammenti di quelle che chiama «informazioni» sono arrivati da sé, vale a dire pezzi di testi, melodie, suoni strani. E con esse, l’idea che spiritualità, creatività e storia dell’umanità siano in qualche modo intrecciate.
Per tradurre tutto ciò in un album, il suo quindicesimo, Simon ha invitato nel suo studio casalingo a Wimberly un fonico e vecchi amici del calibro di Wynton Marsalis. A documentare la lavorazione di quello che potrebbe essere il suo ultimo lavoro c’era il regista Alex Gibney.
Il risultato è In Restless Dreams, che non è solo il resoconto della nascita dell’album di uno dei massimi cantautori viventi che fa i conti con temi e i timori che ha affrontato per la maggior parte della sua carriera. La docuserie in due parti è qualcosa di più: inserisce Seven Psalms nel contesto degli alti e bassi d’una carriera che ha attraversato sette decenni. È un viaggio lungo e tortuoso che accompagna l’only living boy in New York dagli inizi nel Queens, poi in Giamaica, Hollywood, Sudafrica e Brasile, per tornare infine a un modesta casetta nel Texas centrale. Come si dice in questi casi? Il viaggio è più importante della destinazione.
Alex Gibney è un professionista navigato che ha fatto di tutto, dai documentari narrati in prima persona al cinegiornalismo fino ai ritratti di gente come Frank Sinatra, Hunter S. Thompson, James Brown. Non ha un suo stile definito, ma un modo di lavorare. Nel caso di Simon, va avanti e indietro con la cronologia, senza mai perdere il focus. In Restless Dreams – The Music of Paul Simon tratta anche argomenti personali, ma lo fa anzitutto per spiegare il processo di scrittura e registrazione. E quindi si parla del matrimonio tormentato con Carrie Fisher, ma attraverso la registrazione di Hearts and Bones del 1983. E sì, c’è anche Simon che sparla di Art Garfunkel (e viceversa) in immagini d’epoca, interviste, battibecchi in tv.
Il primo episodio, che negli Stati Uniti è andato in onda su MGM+ lo scorso 17 marzo e s’intitola Verse 1, ripercorre la storia del musicista fino alla separazione da Garfunkel, e quindi l’amicizia da ragazzi, il primo singolo come Tom & Jerry, il rebranding come Simon & Garfunkel dopo la firma del contratto con la Columbia, la falsa partenza del primo album, Tom Wilson che produce una nuova versione di The Sound of Silence, l’ingresso in classifica, Il laureato. È tutto qui, con tanto di demo, prove di copertina, frammenti sbiaditi di vecchi servizi giornalistici.
Restless è pieno d’aneddoti e filmati di repertorio interessanti anche per chi già conosce la storia, perché ha il merito di sottolineare certi passaggi. Per dirne uno, il trasferimento di Simon a Londra è trattato di solito come un incidente di percorso o poco più intercorso tra Wednesday Morning, 3 A.M. e la “nuova” Sound of Silence che inaugura l’era delle hit di Simon & Garfunkel. Il documentario spiega che non è stata una nota piè di pagina della storia del musicista, ma un momento fondamentale di crescita personale e di miglioramento della creatività. Pensate che il duo fosse politicamente e culturalmente fuori posto quando si è esibito da headliner al festival hippie di Monterey Pop? Il documentario vi ricorda che hanno realizzato Songs of America, uno speciale del 1969 per la CBS (diretto da Charles Grodin!) che mescolava musica, commenti pungenti, spezzoni di tg. A un certo punto Garfunkel dice che l’America sta per compiere 200 anni. «Pensi che ci arriverà?», chiede Simon.
Il primo episodio si chiude con Bridge Over Troubled Water, l’amarezza e la rottura, Artie che se ne va a fare cinema e Simon che si mette a lavorare a uno degli album più popolari degli anni ’70. Nella seconda parte, rieccolo pronto a dare il via alla carriera solista. Clive Davis, all’epoca boss dell’etichetta Columbia, è il demonio che gli suggerisce che mettere fine al duo, che è il best seller dell’etichetta, sarebbe un grosso errore. A far la parte dell’angelo è la prima moglie di Simon, Peggy Harper, che gli ricorda che è lui a scrivere le canzoni e quindi perché mai dovrebbe preoccuparsi? Aveva ragione lei, come dimostra la storia che segue e che comprende tra le altre cose SNL, One Trick Pony, una reunion di grande successo, un tentativo non altrettanto riuscito di tour e album di reunion, flirt con la world music, l’incontro con Edie Brickell, il raggiungimento dello status di eminenza grigia. L’unica costante è la reinvenzione. E l’amore per l’armonia.
Restless è pieno di piccoli tesori, che siate o meno fan sfegatati di Paul Simon. Chiaramente esserlo è utile per appassionarsi alla discussione dei meriti di Ace in the Hole o chiedersi se il testo di Allergies compensa la brutta parte musicale. L’aspetto più interessante di questo sguardo laterale sulla carriera di Simon, di questo enfatizzare la musica e non la follia che la circonda, è l’idea che il fallimento sia di maggiore ispirazione del successo. Non ci sarebbe stato alcun concerto di Central Park senza il flop di One Trick Pony. E se Hearts and Bones non fosse stato considerato un mezzo passo falso, Simon non avrebbe avuto la libertà di essere lasciato in pace e di seguire la sua musa in Sudafrica, producendo Graceland.
C’è anche la questione dell’appropriazione culturale di quell’album epocale, un argomento già trattato in Under African Skies di Joe Berlinger. Il documentario mostra ampie parti di un concerto del 1987 in Zimbabwe in cui Simon suona con una serie di musicisti africani a cui cede regolarmente la scena. Voleva che la gente sapesse da dove veniva questa musica e chi la produceva prima che le sue scarpe dalla suola di diamante (cit) calpestassero il continente.
Il secondo episodio Verse 2 si ferma al 1992, subito dopo l’uscita di The Rhythm of the Saints, ignorando completamente l’esistenza dei sei album seguenti e la controversa produzione di Broadway di The Capeman, insomma tutto ciò che separa Seven Psalms dai trionfi di trenta e passa anni prima. È un’omissione che impedisce a In Restless Dreams di essere il documentario definitivo su Paul Simon, però ci va vicino.
D’altra parte, Gibney non aveva alcuna intenzione di produrre un’opera esaustiva. Ricordate? Il documentario inizia con Simon che insegue un sogno, nel vero senso della parola, e lotta con vari problemi (all’inizio delle registrazioni ha perso l’udito da un orecchio, col risultato che il suo modo di cantare è cambiato radicalmente), con l’età, col tempo. Un’esistenza spesa in ricerca filosofica e artistica finisce in Seven Psalms. Il fatto di poterlo vedere realizzato attraverso la storia d’una vita e di come si è arrivati a quel momento lo rende ancora più affascinante.
Da Rolling Stone US.