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Il flirt tra rap napoletano e canzone neomelodica è diventato ’nu grande ammore

Storia del progressivo avvicinamento di due generi che 30 anni fa sembravano musicalmente e culturalmente inconciliabili. C’entrano alcuni artisti audaci, l’ambizione di essere popolari, l’amore per le radici, la strumentazione digitale

Foto: Vittorio Cioffi

Se c’è un rapper che più d’ogni altro ha contribuito ad abbattere i confini che tradizionalmente separavano rap, canzone napoletana e pop italiano, portando quello è Geolier. Brani come Scumpar ed Episodio d’amore, per fare due esempi tratti dall’ultimo album Dio lo sa, sono una sintesi perfetta di questi stili. Coi tre imminenti concerti allo Stadio Maradona ha guadagnato il ruolo di pop star napoletana assoluta, una dimensione inedita per un rapper.

La musica di Geolier è figlia dei tanti esperimenti che nel corso dell’ultimo trentennio hanno portato l’hip hop a mescolarsi con il neomelodico. Quest’ultimo è il genere popolare per eccellenza a Napoli, quando con questo termine si intende sia la scala di diffusione dei brani che il contesto di chi lo produce e di chi lo ascolta. Il rap, dal canto suo, ha sempre avuto l’ambizione di essere popolare, ereditando questo carattere dall’hip hop americano e, di conseguenza, dalla cultura della comunità nera. La vicinanza tra i due generi oggi appare naturale, ma non si è trattato di un percorso lineare e, tutt’ora, il legame genera qualche malumore.

«Il rap napoletano, alle sue origini, era lontano dalle strade della città», mi dice O’ Iank dei Fuossera, a cui ho chiesto di aiutarmi nel rintracciare le radici del rapporto tra rap e neomelodico. Attivo dal 1998, il gruppo di O’ Iank ha contribuito a introdurre argomenti e linguaggi nuovi nell’hip hop partenopeo. In effetti, il rap attecchisce a Napoli nei primissimi anni ’90 e, come in tutta Italia, si posiziona come genere di nicchia e fortemente impegnato politicamente. «All’epoca, rap e neomelodico si muovevano su due binari distinti», ribadisce O’ Iank. Se il neomelodico fin dagli anni ’70 si poneva in esplicita continuità con la sceneggiata napoletana, il rap si riconosceva in una scena più sperimentale che vedeva come pionieri gruppi come i 99 Posse e gli Almamegretta. A confermare la tesi c’è il cantante Ivan Granatino, anche lui testimone e protagonista di quegli anni: «Fino al 2005/2006, l’80% della città ascoltava neomelodico, il 20% ascoltava le produzioni di artisti più di nicchia».

La Napoli degli anni ’90 viveva in maniera netta questa dicotomia con due scene rigidamente separate che utilizzavano linguaggi distanti e difficilmente conciliabili. E, in effetti, non sarebbe potuto essere altrimenti se si pensa alla spinta fortemente pop con cui si caratterizza il neomelodico della prima ora. A riguardo interrogo Simona Frasca, ricercatrice di etnomusicologia presso l’Università Federico II di Napoli e autrice tra le altre cose di Mixed by Erry, la storia dei fratelli Frattasio da cui è tratto il film di Sydney Sibilia. «La canzone neomelodica è un genere ma anche un’etichetta di comodo coniata alla metà degli anni ’90 e nata per identificare la produzione napoletana da Nino D’Angelo in poi. In realtà, come dice lo stesso Nino D’Angelo, cosa ci sia di “neo”, cioè di “nuovo” è tutto da capire perché i neomelodici della prima generazione, per così dire, si limitavano a prendere il pop italiano e a cantarlo in napoletano, tutto qui, lo dice lui stesso. Quando si parla di neomelodico al di fuori di Napoli si pensa a musica di bassa qualità ma non è così, o comunque non vale per tutti. Sotto la categoria del neomelodico vengono inquadrati artisti molto diversi tra loro che hanno in comune solo il fatto di cantare in napoletano».

Secondo Granatino, è così che i media italiani, per ignoranza o per pregiudizio, hanno banalizzato e sottovalutato un genere dalle molte sfumature. La pensa allo stesso modo O’ Iank, che ricorda che il neomelodico è stato la colonna sonora di Napoli per decenni riuscendo a raccontare storie marginali e, fino ad allora, poco rappresentate dalla musica italiana. Nel calderone degli artisti considerati neomelodici va quindi ricordata la figura di Franco Ricciardi. Nato e cresciuto nel quartiere periferico di Secondigliano, Ricciardi è stato tra i maggiori esponenti del cantautorato napoletano a partire dalla fine degli anni ’80. Il suo spirito innovatore lo ha portato ad essere il punto di riferimento di tutti coloro che, partendo dal neomelodico, hanno voluto sperimentare nuove sonorità.

Nel 1997 Ricciardi pubblica Cuore nero, il suo terzo album. All’interno del disco sono presenti due collaborazioni con esponenti della scena rap napoletana, il singolo Cuore nero con i 99 Posse e Vado a dormire con Speaker Cenzou. Si tratta del primo momento di convergenza tra un cantante dal background neomelodico e dei rapper. Questi esperimenti hanno alcune evidenti peculiarità. Il disco Cuore nero, infatti, possiede molto poco di quelli che consideriamo gli stilemi classici del neomelodico, trattandosi di un album cantato largamente in italiano e con una chiara ispirazione neo soul. Sulla falsariga di questo primo episodio, possiamo leggere anche la collaborazione tra il rapper Lucariello e il cantautore Lello D’Onofrio nella canzone Sole del 1999. Siamo in questo caso di fronte a un brano rap a tutti gli effetti, la cui unica particolarità risiede in un ritornello cantato in dialetto napoletano. Prosegue così nei primissimi anni 2000 la tendenza, condivisa dalla maggioranza della scena rap italiana, a non contaminare l’hip hop con altri generi musicali.

Tra il 2005 e il 2010 la scena rap cambia radicalmente. Una nuova generazione di artisti rivoluziona il genere aprendolo a un linguaggio, a un immaginario, a tematiche inedite, più simili a quelle raccontate dall’hip hop americano. Si afferma in Italia il cosiddetto street rap, il sottogenere dell’hip hop il cui obbiettivo è narrare con il maggior grado di realismo possibile la vita dei giovani abitanti delle periferie urbane. A Napoli esplode  il fenomeno Co’ Sang, il primo gruppo a riuscire ad affermarsi al di fuori della scena rap cittadina. Ntò e Luchè, i due componenti del gruppo, sono entrambi cresciuti nella periferia nord del capoluogo campano. La loro capacità di descrivere e soprattutto di impersonificare quei quartieri e i loro abitanti è inedita e rappresenta uno dei picchi più alti dell’intera storia del rap italiano.

Il primo disco del duo, Chi more pe’ mme del 2005, preceduto dal brano Penzier’ Pesan, contiene il brano Int ’o rione. «Passando sotto le vele a Scampia» mi racconta O’ Iank «sentii gli spacciatori della piazza che ascoltavano quel pezzo. Non ci potevo credere. Mi fermai e gli chiesi dove l’avessero trovato. Mi dissero che era in un dischetto. Nei primi anni 2000 questi erano delle compilation, solitamente di canzoni neomelodiche, prodotte amatorialmente e vendute illegalmente. Capii in quel momento che il brano stava diventano qualcosa di mai visto prima».

È dello stesso avviso Granatino, che ricorda distintamente che in quel periodo i Co’ Sang avevano ottenuto una fama senza precedenti per il rap napoletano facendo breccia in un pubblico che non era uso ascoltare altro che non fosse neomelodico. A questa apertura dell’hip hop a un pubblico più ampio è seguita la ricerca di un ulteriore allargamento da parte degli artisti la cui ambizione è diventata quella di conquistarsi le attenzioni delle major discografiche e delle radio, le quali per la prima volta si stavano interessando al genere. Molti rapper hanno quindi prodotto brani in collaborazione con cantanti pop. Ciò non è avvenuto a Napoli, dove il mancato interesse della discografia e dei media nazionali ha spinto i rapper alla ricerca di una via partenopea al successo nazional-popolare.

Nel 2011 Ivan Granatino e Franco Ricciardi pubblicano Zoom. Al suo interno c’è il brano Stand-By con i Co’ Sang. Secondo Granatino si tratterebbe di un momento cruciale per il rap napoletano: «Prima di quella canzone le persone conoscevano Int ’o rione, ma le figure di ‘Nto e Luché erano ancora sfocate; io e Franco venivamo da successi importanti e, attraverso Stand-By, riuscimmo a dare ai Co’ Sang l’attenzione che meritavano».

Dopo l’uscita di Zoom, il duo Granatino-Ricciardi continua a collaborare con diversi rapper tra cui Clementino e Guè Pequeno. Questi esperimenti sono significativi e raccontano di un interesse generalizzato di cantanti provenienti da background differenti nei confronti del rap. Un interesse che viene alimentato anche dal fenomeno Gomorra. La serie ha infatti il merito di introdurre al grande pubblico alcune stelle del rap napoletano. Tuttavia, sono i tentativi dei rapper di muoversi in una direzione più cantautorale a rappresentare un passaggio determinante nell’evoluzione del rap partenopeo.

«Credo che nell’ultimo quindicennio il rap abbia riscoperto la tradizione della canzone napoletana, evidenziando una vena melodica che è nel dna della musica prodotta a Napoli», dice O’ Iank. Uno sviluppo di questo tipo è, per esempio, riscontrabile in maniera evidente nella produzione musicale di Rocco Hunt. Il rapper di Salerno, con brani come Nu juorno buono del 2014, sperimenta un modo inedito di conciliare il rap con la canzone classica napoletana. Il successo di Rocco Hunt è significativo e rappresenta un passaggio intermedio cruciale nella crescita del rap in Campania. La ricercatrice Simona Frasca aggiunge una riflessione di tipo tecnico che avrebbe spinto il rap e il neomelodico ad avvicinarsi: «La canzone neomelodica a livello sonoro presenta un blando intervento di strumenti “reali”, prevale l’uso di tastiere in linea con la forte fascinazione che esercita sul genere il pop latino. Negli anni si è assistito a un progressivo avvicinamento ai suoni preconfezionati, con un prepotente intervento di device digitali, in linea con le tendenze del mercato musicale. Direi che questo ha consentito un naturale avvicinamento al rap, dove nella maggior parte dei casi la produzione strumentale è digitale».

Nel 2016 una nuova ondata di rapper si conquista uno spazio rilevante nella musica italiana. Questa scena, ispirata dalle sonorità trap provenienti da Atlanta, riesce a intercettare lo spirito del tempo in cui viene prodotta e permette al rap di diventare il genere più ascoltato in Italia. A Napoli questa evoluzione viene introdotta da artisti come Enzo Dong e Le Scimmie. Mentre al successo del rap era seguita una decina d’anni prima una ricerca prevalentemente unilaterale di allargamento verso il pop, in questo caso avviene uno scambio reciproco. Questo cambiamento nei rapporti di forza nella musica italiana a Napoli si è tradotto in un chiaro avvicinamento tra rap e neomelodico. Se in precedenza ad interessarsi all’hip hop erano stati cantanti come Ricciardi, che facevano della ricerca musicale il loro punto di forza, oggi nessuno può ignorare il rap. D’altronde i temi di strada, ereditati dal rap partenopeo direttamente dai Co’ Sang, sono facilmente conciliabili con un certo tipo di neomelodico, strettamente connesso al racconto della malavita.

Dal punto di vista della scena rap, invece, è sembrato naturale che il genere si contaminasse con altre sonorità come aveva già fatto in precedenza e come, in maniera diversa, stava accadendo in altre città d’Italia. Sono nati mille esperimenti, difficili da classificare e valutare. È diventata prassi per molti cantanti neomelodici introdurre in un disco almeno un brano dal sound chiaramente di derivazione trap o latina. Lo ha fatto un artista come Anthony, con la hit Mammà con Enzo Dong. Ma lo ha fatto anche Gigi D’Alessio che non manca mai di coinvolgere dei rapper nei suoi dischi. Nel frattempo è cresciuta una nuova generazione di artisti che si muove tra i generi in maniera fluida. È il caso, in forme e modalità diverse l’uno dall’altra, di Liberato, Fabiana, Niko Pandetta, Nicola Siciliano. Questi artisti sono a tutti gli effetti degli ibridi che riescono abilmente a mescolare elementi provenienti da diverse tradizioni musicali.

«Il flirt tra il rap e il neomelodico è molto interessante perché è l’occasione di ascoltare insieme la vocalità più lirica, per così dire, del cantante neomelodico che ha (o almeno prova ad avere) un rapporto dichiarato con la tradizione della canzone napoletana e il rapper che trasforma, suddivide e riduce ritmicamente. Alla fine l’uno influenza l’altro e talvolta vengono fuori degli esiti interessanti», sottolinea Frasca.

Una domanda resta aperta: è stato il rap ad essersi avvicinato al neomelodico o viceversa? I due artisti che ho interpellato hanno, per esempio, due opinioni diverse. Secondo O’ Iank, il rap non si è avvicinato volontariamente al neomelodico. Quest’ultimo scorre in maniera naturale nelle vene di tutti i napoletani e, di conseguenza, li influenza nel momento in cui fanno musica. Per il rapper è semmai il neomelodico che si è accostato al rap attingendo dal genere linguaggi ed estetiche da cui trarre nuova linfa. Granatino la pensa diversamente. Il cantante vede nell’evoluzione melodica del rap napoletano delle forti somiglianze con la tradizione neomelodica. Dal suo punto di vista, poco sarebbe rimasto al rap della sua struttura originaria, soppiantata oggi da una riscoperta della canzone classica.

Probabilmente queste due visioni, seppur discordi, contengono entrambe un nucleo di verità. A Napoli il rap non è mai stato così ascoltato e apprezzato. Questo successo trasversale è figlio di una scena che non ha avuto paura di mettersi in gioco e sperimentare. Senza questo spirito innovatore sarebbe stato impossibile per un rapper purissimo come Geolier alternare brani rap classici a canzoni tradizionali come I p’ me tu p’ te. Dall’altra parte, molti artisti neomelodici hanno dimostrato un’apertura mentale invidiabile cercando, anche loro, di approcciarsi a sonorità distanti dal loro background. Forse, in questo aspetto, risiede l’unicità della tradizione musicale partenopea, capace di contaminarsi senza paura di perdere le proprie radici.

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