Quelli della mia generazione di milanesi, trapiantati o meno, sono forse stati gli ultimi fortunati a poter crescere con l’eco, spesso un vero e proprio frastuono, della musica di Enzo Jannacci. Non tutti, certo, ma i nati a cavallo tra anni ’70 e ’80 sono diventati adulti pensando che la nostra città fosse ancora quella del Derby, di Cochi & Renato, di Dario Fo. Se uno di loro, Giorgio Gaber, era riuscito a varcare i confini del capoluogo lombardo, per Jannacci quei limiti sono rimasti sostanzialmente sempre gli stessi.
Ricordo bene gli sguardi stupiti degli amici che non lo conoscevano, qualcosa a metà tra epifania e incredulità. Inevitabilmente scattava la domanda: com’è possibile che un autore del genere non venga considerato alla stregua di De Andrè o De Gregori? Una domanda a cui, a dieci anni dalla scomparsa, faccio fatica a dare una risposta. Se è vero che tutti i cantautori finiscono in qualche modo per essere ridotti a un pugno di canzoni, la vastità e la qualità media della discografia di Jannacci è inversamente proporzionale al numero di persone che la conoscono. Le cose non sono cambiate nemmeno dopo la morte, che in genere porta con sé la riscoperta.
Jannacci era un cantautore atipico, la sua arte poteva passare dai racconti degli ultimi, fossero tossici, senzatetto o morti sul lavoro, e poi virare improvvisamente verso un nonsense che o lo capivi di stomaco o c’era poco da fare. È stato forse l’unico autore credibile sia quando ti squarciava lo stomaco che quando scriveva pezzi completamente assurdi come Son s’cioppàa.
Jannacci, soprattutto, non era inquadrabile: è partito col rock‘n’roll, ha attraversato il teatro canzone, il cabaret, la scrittura di denuncia e non ha mai smesso di fare il medico. Una cosa inspiegabile, che lo faceva stimare universalmente, ma che contemporaneamente l’ha relegato a esemplare unico, quindi paradossalmente non universale. Ho sorriso nel leggere che Elio l’ha incontrato solo una volta senza nemmeno potergli parlare, perché sotto anestesia dopo un’operazione all’appendicite. Mi è tornata alla mente la volta in cui, per caso, la mia strada ha incrociato la sua.
Erano i primi anni 2000, facevo l’università e lavoravo in un ufficio di consulenza del lavoro. Non è che avessi un ruolo preciso, semplicemente facevo quello che gli altri si rifiutavano di fare e nessuno voleva mai andare in giro per Milano a consegnare le buste paga ai dipendenti delle aziende per cui lavoravamo. Per me invece fare le consegne era l’unico modo per girare la città per ore venendo anche pagato per farlo. Uno dei classici giri era quello a Città Studi: scendevo a Piola col mio carico di buste e mi spostavo verso viale Romagna. Fu lì, al numero 47, che quella mattina ad aprirmi il portone fu proprio Jannacci. L’iniziale spaesamento lasciò presto spazio al fan che era in me, tanto che per poco non mi lasciai sfuggire un plateale: «Jannacci, arrenditi!».
Fortunatamente mi limitai solo a seguirlo per un po’, giusto per il gusto di poter dire di aver percorso qualche metro di Milano insieme a lui. Faceva molto freddo e l’assenza di passanti mi permise di godere appieno di quei dieci minuti di ammirazione silenziosa. Poi, giunti a un semaforo, Jannacci vide un ragazzo con in mano la classica spazzola che cercava di tirare su qualche moneta lavando il parabrezza degli automobilisti in sosta. Senza pensarci troppo, l’autore di El purtava i scarp del tennis si tolse il montone che indossava e glielo regalò, proseguendo il suo cammino in camicia, incurante delle temperature e di tutto. Nessuno si accorse di niente, ma non riesco a dimenticare lo sguardo di quel ragazzo che rispose in lacrime e con un abbraccio vigoroso a chi gli aveva fatto quel regalo inatteso. Dopo quella dimostrazione di amore viscerale, decisi di tornare indietro e completare il mio lavoro.
Qualche volta rimpiango di non essere riuscito a dirgli una parola, ma quello che ho visto è bastato per capire che sono stato fortunato a crescere con la musica dell’artista meno inquadrabile ma più coerente che mi è mai capitato di incrociare.