Fino a tre settimane fa era possibile ascoltare su Spotify una playlist intitolata Musikkorps Der Leibstandarte – SS Adolf Hitler Radio, dal nome del corpo militare del Führer. È stata la piattaforma di streaming a generare autonomamente la lista di canzoni e alcuni redattori di Rolling Stone, cliccandoci su, hanno ricevuto ognuno una sequenza differente di tracce. Questo perché, in base all’algoritmo, Spotify selezionava diversi inni nazionali, spesso senza alcuna connotazione negativa. Due delle playlist generate contenevano musica della Das Luftwaffenmusikkorps 3, banda militare così battezzata in onore dell’aereonautica nazista.
A distanza di un giorno dalla richiesta di spiegazioni di Rolling Stone a Spotify circa il motivo per cui il servizio offriva e generava una playlist chiamata SS Adolf Hitler Radio, oltre a ospitare un podcast sulla “guerra santa razziale” e diversi altri esempi di musica neofascista, la piattaforma ha rimosso tutto.
La policy di Spotify proibisce «contenuti che incitino alla violenza o all’odio verso una persona o gruppi di persone in base a razza, religione, identità o espressione di genere, sesso, etnia, nazionalità, orientamento sessuale, condizione di reduce di guerra, età, disabilità o altre caratteristiche associabili a discriminazione sistematica o emarginazione». Nonostante queste regole e le segnalazioni del Southern Poverty Law Center (SPLC) e dell’Anti-Defamation League (ADL) nei confronti dell’azienda e di altri servizi di streaming che hanno permesso la presenza di hate music, i musicisti che supportano il suprematismo bianco, l’antisemitismo e l’ideologia neofascista continuano a trovare posto nelle principali piattaforme.
Ci sono gruppi NSBM (National Socialist Black Metal) come gli Übermensch che totalizzano più di 30 mila ascoltatori mensili, mentre Burzum, il pioniere norvegese del NSBM che di recente si è lamentato su Twitter per le critiche ricevute dopo aver consigliato la lettura del Mein Kampf, attira 223 mila ascoltatori al mese.
Rolling Stone ha controllato per tre mesi i cataloghi di Spotify, Apple Music, Tidal e Amazon Music, scoprendo un numero sorprendente di hate music. In tutte le piattaforme sono stati scovati musicisti che suonavano NSBM e fashwave (un sottogenere di elettronica orgogliosamente fascista), ma anche hardcore punk filonazista, RAC (Rock Against Communism, una forma di punk di destra nata nel Regno Unito, negli anni ’70, come reazione ai concerti Rock Against Racism) e vera e propria musica nazista degli anni ’30 e ’40.
Molti di questi artisti non provano neppure a nascondere le loro idee politiche. Il brano più ascoltato su Spotify del musicista fashwave IronMensch (già segnalato dall’ADL) è intitolato Aryan Fury; il suo secondo pezzo più popolare è Reich Machine. Alcuni agiscono in violazione dei termini di utilizzo di Spotify e in passato sono stati segnalati al servizio di streaming. Ma, anche dopo i rilievi dell’ADL dello scorso settembre, la musica degli IronMensch, dei musicisti fashwave Elessar e OBNX e del gruppo NSBM Übermensch continua a essere disponibile su Spotify.
«Da tempo la musica è un mezzo di radicalizzazione», spiega a Rolling Stone Calum Farley, ricercatore investigativo del Centro sull’Estremismo dell’ADL. «Una piattaforma come Spotify, che raggiunge un pubblico tanto ampio, rende particolarmente facile trovare questo tipo di musica per individui che possono esserne influenzati».
«In decine di Paesi si sono verificati atti di violenza motivati dal pregiudizio (dai crimini legati all’odio razziale fino al terrorismo) e collegati alla scena della hate music», spiega a Rolling Stone Aaron Flanagan, vicedirettore per la prevenzione e le partnership dell’Intelligence Project dell’SPLC. «Quel tipo di violenza è più frequente soprattutto là dove la hate music incontra la scena degli skinhead razzisti».
«La hate music fa affluire milioni di dollari nelle casse del movimento suprematista bianco mondiale, ma anche dei movimenti e delle scene musicali che hanno legami con esso», continua. «È capitato che questo denaro sia finito direttamente nelle mani di organizzazioni e reti terroristiche. Ma chi produce e scrive quel tipo di musica non potrebbe ottenere una visibilità così diretta, facile e praticamente a costo zero senza appoggiarsi ai servizi di streaming online. È dunque imperativo che queste piattaforme siano particolarmente ligie nell’applicazione dei termini e delle condizioni di utilizzo e nella rimozione di questo tipo di propaganda: tutto ciò aiuterebbe ad arginare l’ondata di materiale che incita all’odio e al terrorismo».
L’indagine di Rolling Stone sui servizi di streaming ci ha fatto scoprire album e brani di gruppi che online sono identificati come fashwave (Elessar, OBNX, Xurious), hardcore nazionalsocialista (gli Still Burnin’ Youth, poi rimossi da Spotify e Apple Music dopo che Rolling Stone li ha segnalati) e NSBM (Infernum), tra gli altri. Su Apple Music, la chiave di ricerca “fashwave” ha restituito otto playlist generate dagli utenti, mentre con “NSBM” ne sono uscite sei; “fashwave” ha fornito 38 playlist di utenti su Spotify, mentre “NSBM” era presente nei titoli di 20. Tidal aveva il minor numero di gruppi neofascisti che potevano violare i suoi termini di utilizzo.
Tutte le piattaforme di streaming vietano espressamente l’incitamento all’odio. Ma come fanno questi musicisti ad aggirare le regole? La risposta è piuttosto fumosa.
«Solo nell’ultimo anno, Spotify ha preso provvedimenti nei confronti di decine di migliaia di episodi di podcast, playlist e centinaia di brani: violavano le regole della piattaforma che vietano i contenuti che incitano alla violenza o all’odio nei confronti di una persona o di un gruppo di persone», spiega a Rolling Stone un portavoce di Spotify. «Spotify ha fatto, e continuerà a farli, investimenti significativi in misure di rilevamento, sia umane che algoritmiche, per garantire un’esperienza sicura per tutti e continuiamo nell’impegno a far rispettare rigorosamente le nostre regole. In questo caso, Spotify ha esaminato i contenuti segnalati e ha rimosso quelli che sono risultati in violazione delle nostre policy».
Alle richieste di commento inoltrate da Rolling Stone, i rappresentanti di Tidal e Apple Music hanno risposto chiedendo quale musica violasse i loro termini di servizio. Non hanno però rilasciato dichiarazioni, né dato la disponibilità di qualche membro dello staff per un’intervista. Amazon Music non ci ha risposto. Al momento della pubblicazione di questo articolo, Apple Music ha rimosso parte della musica segalata da Rolling Stone, mentre su Tidal e Amazon Music è ancora tutta disponibile.
«È necessario intervenire proattivamente per identificare i contenuti pericolosi non appena appaiono sulle piattaforme, oltre a rispondere tempestivamente alle richieste di rimozione da parte di utenti ed esperti», dice Megan Squire, vicedirettrice dell’analisi dei dati e dell’intelligence open source presso l’Intelligence Project dell’SPLC. «A partire dai primi anni ’80 la hate music si è evoluta e alcuni gruppi ed etichette sono diventati bravi a eludere le leggi sull’incitamento all’odio e sulla discriminazione razziale vigenti in Paesi come Inghilterra, Canada, Germania e altri. Anche se alcune band accettano il compromesso di mascherare le loro convinzioni dietro a testi più edulcorati, sono pur sempre legate a movimenti e ideologie basate su violenza e odio».
Sebbene il razzismo fosse onnipresente nella musica popolare da decenni, l’idea di hate music ha preso piede negli Stati Uniti negli anni ’60 con le canzoni country razziste attribuite a Johnny Rebel, le cui incisioni sono ancora reperibili su CD in vari siti web di orientamento neonazista. Rock Against Communism, che organizzava concerti sotto l’egida del movimento White Power in tutto il Regno Unito, ha preso piede alla fine degli anni ’70 attirando i fan skinhead di band come Skrewdriver e Skullhead. Una canzone degli Skrewdriver, When the Boat Comes in (N–r N–r), recita: “Non staremo a guardare mentre la nostra terra viene presa senza combattere / N—i n—i via via!”. La canzone è ancora indicizzata su Spotify, ma non è riproducibile.
Negli anni ’90, la retorica del White Power si è insinuata nel lavoro di alcuni musicisti dell’area metal estrema soprattutto in Norvegia, dove uno dei più popolari, Varg Vikernes della one man band Burzum, ha esaltato l’ideologia nazista mentre stava scontando una condanna per omicidio. La declinazione più recente della hate music è la fashwave (esiste anche la Trumpwave). I messaggi lanciati da questi musicisti sono molto meno espliciti, rispetto a quelli dei loro predecessori, e spesso sono sepolti in un mare di beat EDM. Sebbene si parli di loro principalmente nelle message board online, i musicisti fashwave hanno comunque trovato facilmente ospitalità nei servizi di streaming.
«Le piattaforme non riescono a identificare i contenuti dei musicisti che ammorbidiscono o mascherano i messaggi dei testi o delle copertine, e anche di quelli che non cantano in inglese o, se li condividono, non diffondono i loro testi in questa lingua», spiega Flanagan.
«La fashwave è un buon esempio di come funziona. Questi fornitori di contenuti prendono un genere o un tipo di musica che è popolare e cercano poi di metterlo al servizio della loro ideologia», dice Farley. «La fashwave è iniziata con la vaporwave e altre forme di musica elettronica ambient che poi sono state cooptate in ambienti estremisti». Farley aggiunge anche di aver rilevato un nuovo sottogenere di musica chiamato phonk, simile alla fashwave, che sta veicolando messaggi d’odio.
«I suprematisti bianchi tentano continuamente di innovare e svecchiare la hate music quando l’interesse verso certi generi, con il passare del tempo, scema e le nuove generazioni che raggiungono la maggiore età sviluppano interessi diversi rispetto ai media e alla musica», aggiunge Flanagan. «Oggi gli skinhead razzisti hanno una rilevanza molto minore rispetto al passato, mentre gli show più importanti, a livello internazionale, sono legati a certi sottogeneri di metal estremo che promuovono la supremazia bianca, il fascismo e il neonazismo».
Negli ultimi dieci anni, organizzazioni come SPLC e ADL hanno chiesto più volte ai servizi di streaming di far rispettare i termini di servizio, ma sembra che le piattaforme non siano all’altezza del compito. Dal 2014 a questa parte, Rolling Stone ha pubblicato tre diversi articoli sul tema della rimozione di hate music da parte dei servizi di streaming, ma il problema persiste. Dal momento che nessuna delle aziende interpellate ha voluto concederci un’intervista, è impossibile capire i criteri con cui stabiliscono quali musicisti soddisfino i loro termini di servizio. Detto questo, è anche vero che online ci sono molti articoli che spiegano come identificare il simbolismo neofascista in musica. Kim Kelly, collaboratore di Rolling Stone, ne ha scritti due: uno per la Columbia Journalism Review e l’altro per Gizmodo.
Farley mette in discussione il processo di selezione di chi invia musica ai servizi di streaming e si domanda come sia possibile che alcuni produttori di hate music siano diventati “artisti verificati” su Spotify: «Com’è che non esiste una barriera d’ingresso per evitare che entrino nella piattaforma?».
L’SPLC mette a disposizione diverse risorse per identificare i messaggi d’odio nelle opere artistiche e sta pianificando l’ampliamento dell’offerta. «Oltre al monitoraggio regolare con metodi digitali e analogici, l’SPLC ora sta testando una serie di modalità di rimozione proattiva dei contenuti», spiega Squire dell’SPLC. «Uno di questi è uno strumento che ci aiuta a cercare attivamente contenuti audio e video che istighino all’odio su siti web e social media, consentendoci di richiedere la rimozione da parte del sito ospitante. Non dovrebbe però essere compito esclusivo delle organizzazioni di vigilanza controllare i contenuti e chiederne la rimozione dopo che hanno già causato danni. Questo software è solo uno dei tanti prodotti simili ampiamente disponibili».
I portavoce dell’ADL e dell’SPLC auspicano che i servizi di streaming si attengano alle loro linee guida sui contenuti e s’impegnino maggiormente per individuare i contenuti sensibili. «Il problema è che le aziende private permettono la diffusione di contenuti estremisti e d’incitazione all’odio che hanno un impatto innegabile sulla vita quotidiana delle persone», afferma Squire. «Quando le aziende forniscono una piattaforma per – e traggono profitto da – contenuti dannosi, si assumono la responsabilità di promuovere la violenza alimentata dall’odio».
Da Rolling Stone US.