Passando per le vie di Roma mi sono imbattuto in una delle tante troupe cinematografiche che popolano le vie della città. I camerini che riportavano la scritta “mamma Mauro Repetto” hanno immediatamente svelato l’arcano, prima ancora che mi avvicinassi in cerca di notizie succulente da parte di qualche cameraman intento ad addentare un panino con la porchetta. La domanda è sorta spontanea: in un’epoca di biopic, talvolta anche discutibili ma di successo spropositato, perché nessuno ha mai pensato a un film su Vasco Rossi, la cui storia, di fatto, sembra la sceneggiatura perfetta di quello che un tempo veniva definito il sogno americano?
In attesa di capire se mai assisteremo alla resa cinematografica (seriale o meno) della sua vita e dopo l’anticipo di dodici anni fa di Questa storia qua, classico docufilm vecchia maniera che aveva aperto qualche squarcio in più nella lunga e spesso tribolata biografia del cantante, ecco giungere la serie Vasco Rossi – Il Supervissuto che promette di diventare il punto di riferimento per ogni amante del Blasco, la videobibbia di tre generazioni di sconvolti.
Fedele ai giochi di parole che negli ultimi anni hanno caratterizzato ogni sua dichiarazione e accompagnato da un team di autori capeggiati dal fedelissimo Pepsy Romanoff, Vasco opta per un titolo che è la migliore delle dichiarazioni d’intenti: raccontare in cinque episodi sì la propria parabola, ma in particolare la tenacia e il coraggio che l’hanno portato a sopravvivere in primis a se stesso. Il tutto senza rinunciare a vivere nemmeno un secondo, prima agli eccessi e poi quella che definisce la più grande delle trasgressioni: quella di mettere su famiglia. Un supervissuto, appunto.
Come nel caso delle autobiografie, un’operazione di questo genere porta con sé almeno due grandi rischi: sfociare nella più esagerata autocelebrazione e censurare le cose meno edificanti. Il Supervissuto non cade in nessuna delle due trappole, o meglio, ci cade nel modo giusto. Una miniserie dedicata al più grande fenomeno nazionalpopolare del nostro Paese non può che essere autocelebrativa. Anzi, uno degli obiettivi primari è quello di celebrare il mito. Come già accaduto altre volte, tuttavia, la capacità di Vasco di non prendersi mai troppo sul serio, quel suo essere sempre scisso tra serio, anche serissimo e faceto, rende la narrazione sghemba quel tanto che basta per non annoiare. La forza narrativa del racconto di Rossi è interrotta solo dagli interventi di amici e parenti che, seppur inevitabili e talvolta anche ficcanti, il più delle volte finiscono per interrompere flussi di vascopensiero che potrebbero portare ancora più in alto lo storytelling.
Altra cosa che funziona, ma che proprio per questo avrebbe meritato ancora più spazio nel corso degli episodi, è il Vasco chitarra acustica e voce. L’inizio così, in solitaria, sulle note di Anima fragile vale già tutta la parte dedicata all’infanzia e alle origini del mito, ma allo stesso tempo lascia una voglia addosso di continuare su quella strada che viene in parte disattesa. Sarebbe bello sapere se durante le riprese Vasco si sia lasciato andare in maniera maggiore rispetto a quello che possiamo vedere, tenendo magari qualche perla per l’inevitabile pubblicazione su disco.
Della parte relativa agli anni di Zocca, assurta ormai a sorta di Betlemme nostrana da centinaia di fan che perennemente la visitano in cerca del loro Messia, si sapeva ormai quasi tutto. Eppure è bello vedere Vasco risalire a due a due i gradini della sua prima casa, ricordando con quel misto di ingenuità e presa in giro gli anni dei primi amori, delle prime rime, dei sogni che sembrano stupidi fino a quando non si realizzano. Così come è emozionante guardarlo entrare dopo decenni nella prima sede di Punto Radio, rimessa “in funzione” per l’occasione: è solo lì che comprendi davvero quanto quello sia stato il vero centro di gravità intorno a cui si riunirono tutte le figure determinanti per la sua carriera, da Gaetano Curreri a Maurizio Solieri fino a Massimo Riva.
L’asse portante, il big bang da cui prese vita la convinzione di non essere un semplice montanaro con i vestiti troppo larghi per diventare una celebrità. Questa caratteristica, quella di raccontare una storia già nota riuscendo comunque a renderla “inedita” senza bisogno di effetti speciali è la cosa che fa funzionare il progetto, per lo meno per quanto riguarda i primi tre episodi resi disponibili per la stampa. Il rischio di spoiler è davvero minimo, perché quasi tutto quello che viene narrato è già di dominio pubblico. È sentirlo dalla voce del protagonista che basta a renderlo nuovo. Come nel caso del racconto degli anni spericolati, interrotti bruscamente dall’esperienza del carcere: senza diventare morboso o indugiare in revisionismi di sorta, Vasco non rinnega nulla, arrivando quasi a rivendicare il suo diritto a vivere appieno quello che gli stava accadendo. Ammettendo però in qualche modo tra le righe che, nonostante fosse avvenuto in circostanze quantomeno sospette, l’arresto rappresentò anche il punto di svolta di un’esistenza ormai votata a un’edonistica autodistruzione.
Tra i record accumulati e frantumati da Rossi ce n’è uno difficile da quantificare, ma comunque sotto gli occhi di tutti: a differenza della quasi totalità degli altri esponenti della nostra musica popolare, i suoi concerti non sono popolati solo da gente della sua età o poco meno. Per quello esiste un Vasco per ognuno di noi. Ne esiste uno per quei disadattati che in lui vedevano un portavoce credibile, così come ne esiste uno per quelli che non hanno mai potuto vederlo in posti che non fossero stadi sold out. Per un adolescente di oggi, gruppi anche molto famosi solo quindici anni fa non rappresentano nulla. L’unica eccezione, provate empiricamente in prima persona se ne avete la possibilità, è quella di Vasco. Pur ignorandone completamente il ruolo di pericolo numero uno che ricopriva nei primi anni ’80 e persino le canzoni che ne hanno costruito il mito. Perché Vasco è stato capace di segnare ogni decennio in cui ha pubblicato dischi, perché ha avuto il coraggio di fare sempre ciò che ha voluto, anche quando ha deciso che a 60 anni e oltre non poteva più parlare con lo stesso linguaggio di quando ne aveva 30, come spesso gli veniva invece chiesto da chi non si riconosceva più nella sua musica.
Con tutti i suoi difetti, Vasco non ha mai smesso di essere se stesso, anche quando esserlo non rappresentava più nulla di trasgressivo. Quella è la vera formula della sua longevità, quella che senza effetti speciali traspare alla perfezione da Vasco Rossi – Il Supervissuto.