Ce ne sarebbero tante da raccontare per tracciare l’onda lunga di Patriots, il secondo album “popolare” di Franco Battiato che usciva quarant’anni fa nell’indifferenza generale. Partiamo da questa: nel 2011 i Subsonica pubblicano una cover del pezzo-manifesto dell’opera, Up Patriots to Arms, facendolo proprio con un arrangiamento da rock band (il pogo è assicurato) più che da club, ma mantenendo invariato il resto. Ecco, nonostante il passare del tempo, anche lì il brano non perde un minimo di incisività, tanto che quel rifacimento resta uno degli episodi migliori di Samuel e soci, perlomeno da dopo L’eclissi (2007). E se parte del merito è indubbiamente loro, non si può non parlare di quanto l’originale sembrasse provenire dal futuro, quando uscì. Un dato a prova di tutto ciò: mentre i grandi nomi sfioravano il milione di copie, il disco ne mise in cascina appena 40 mila: un flop, insomma. Perlomeno a prima vista.
Quindi il 2020, l’anniversario, una ristampa celebrativa da venerdì nei negozi. Riascoltare adesso Patriots è ritrovarsi davanti a un lavoro all’epoca avanguardistico, incompreso, poi rivalutato un po’ alla volta come piccolo classico di Battiato. Che, alla vigilia del successo de La voce del padrone, aveva già trovato la chiave; solo che nessuno se ne era accorto.
Era, dicevamo, il suo secondo album pop, dopo la sperimentazione incallita di Pollution e L’Egitto prima delle sabbie (siamo a metà dei ’70) e la svolta “radiofonica” de L’era del cinghiale bianco (1979). Ci andiamo cauti perché, in un panorama allora dominato da Battisti, cantautori e solito bel canto all’italiana, l’artista siciliano era una sorta di alieno, come sintetizzeranno con neanche troppa ironia Calcutta e Giorgio Poi ne La musica italiana (“Battiato, che paura, chissà che lingua parla”). Pop pedagogico, avremmo capito poi. Tradotto: musiche orecchiabili, ballabili, eppure con accenni barocchi, colti, da camera; e testi pieni di citazioni letterarie, quadretti stralunati ed esotici, ricordi, impersonificazioni e termini “tecnici” inediti per il nostro canzoniere mischiati a satira e nonsense. E se L’era del cinghiale bianco risente ancora delle fascinazioni lasciate alle spalle (come nel caso della bellissima, misteriosa e per niente immediata Il re del mondo), Patriots coi suoi piccoli numeri è il vero padre de La voce del padrone, che solo l’anno dopo venderà un milione di copie (nessuno, nel nostro Paese, ci era riuscito prima) sostanzialmente bissandone la formula. L’Italia, insomma, si accorse di lui all’improvviso. O, forse, Battiato giocava troppo d’anticipo.
Fatto sta che tutto, in questo disco del 1980, era già a fuoco, in bilico fra elitario e modaiolo, caustico e giocoso. La (quasi) title track, per dire, è Bandiera bianca prima di Bandiera bianca: un comizio di piazza buono ancora adesso, polemico e paradossalmente ballabile col suo tappeto di sintetizzatori, la voce flebile e stronza che lancia frecciate (“La musica contemporanea mi butta giù”), guarda a Est col relativismo che lo segnerà da lì in poi (“L’Ayatollah Khomeini per molti è santità: abbocchi sempre all’amo”, perché in Iran era appena cambiato tutto), prepara barricate (“Alla riscossa stupidi, che i fiumi sono in piena”), attacca (“Mandiamoli in pensione, i direttori artistici, gli addetti alla cultura”). E apre portoni.
Ma fermarsi alla prima canzone – che pure resta il passaggio più d’impatto – significa perdersi episodi finiti nell’oblio, nonostante ricalchino l’estetica de La voce del padrone. Come lo stop and go di Venezia-Istanbul, al rimbalzo fra Veneto e Turchia mettendo nel frullatore l’ansia fascista di D’Annunzio, il rapporto erotico di Socrate coi propri allievi, i quadretti di vita quotidiana rubati dagli angoli nascosti, riflessioni personali, ricordi di chissà chi; senza una coerenza precisa, su staffilate di chitarre elettrica (davvero onnipresente, non a caso messa anche in copertina), in un puzzle à la Cuccurucucù. O come Le aquile, con la stessa grazia e un ritornello sovrapponibile a quello de Gli uccelli (altro cult dell’album successivo), ancora rivisitando in prima persona memorie di un passato altrui forse mai neanche esistito. E poi Arabian Song – un pezzo pop catchy col ritornello in arabo, di trent’anni in anticipo su Ghali – a dare la spalla a Frammenti e Passaggi a livello, tre esempi di una scrittura accattivante e complessa al tempo stesso, radiofonica e colta, che nei testi procede per frammenti à la Carver (“Deve sentirsi imbarazzato un vigile, nella divisa, il primo giorno di lavoro”), satira (“A quel tempo per divertimento non avevano ancora inventato il telegiornale”), flussi di coscienza e, soprattutto, citazioni (tra cui Pascoli e Leopardi) per il gusto di confondere le carte.
Più che questi pezzi, però, è il classico Prospettiva Nevski a rendere l’insuccesso del disco davvero difficile da spiegare. Il brano, infatti, passò sotto silenzio, per quanto finirà poi con l’essere rivaluto come bussola di gran parte del repertorio pop di Battiato. Che qui “ruba” – di nuovo – l’identità degli altri, e stavolta quella di un giovane di San Pietroburgo a cavallo della Rivoluzione, fra i balletti di Nijinsky, Stravinsky, il gelo, le Guardie Rosse, l’università, gli amori. Ma non è folklore fine a sé stesso: è una fotografia malinconica di sensazioni e sentimenti, non una cartolina per turisti, con la voce fioca e puntuale che si muove nell’inverno russo in cerca di un senso. Un senso che, come spesso in futuro, arriverà dalla filosofia (“E il mio maestro mi insegnò com’è difficile trovare l’alba dentro all’imbrunire”). E, in due versi, tutto prende una direzione.
Ma Patriots, al di là delle metafore, non era né l’alba né l’imbrunire. Era – ed è – semmai una lezione per tutti, col suo essere “Battiato prima di Battiato”, ma anche incompreso e sottovalutato. Nel 1980 nessuno prestò attenzione a quel pop misterioso e bifronte che eppure di lì a poco sarebbe stato così importante per la musica italiana. Ecco: se l’artista siciliano avesse dato retta al pubblico, al secondo flop dopo L’era del cinghiale bianco (che già di suo era finito nell’indifferenza) avrebbe dovuto abbandonare quella formula, magari appiattirsi altrove. Invece no: perseverò, limò ancora qualcosa (meno chitarre, più sintetizzatori e satira; ma si tratta di poco) e l’anno dopo la ruota girò, col pop pedagogico de La voce del padrone che finì nelle autoradio di tutto il pubblico italiano. Che – dopo questa possiamo dirlo forte – non ci ha mai capito granché, di musica. Ma per fortuna pezzi come Prospettiva Nevski escono comunque, e prima o poi arrivano a destinazione. Perché si possono fare dischi bellissimi anche se nessuno li ascolta. Ci vuole solo (tanta) pazienza.