Più che descrivere la parabola surreale della sua vita in modo sistematico, il film documentario di Giorgio Verdelli Enzo Jannacci – Vengo anch’io mira a raggiungere l’irraggiungibile: dare una definizione dell’artista italiano più difficile da inquadrare. Non a caso, viste le infinite sfaccettature tanto dell’uomo quanto del musicista, il documentario (presentato oggi fuori concorso a Venezia 80 e al cinema l’11, 12 e 13 settembre) si regge sulle innumerevoli visioni che amici e colleghi avevano di lui, anzi che hanno di lui, se consideriamo che quasi nessuno di loro ne parla al passato. Tra tutte, toccanti, divertenti o nostalgiche, a svettare resta forse quella in apertura di Roberto Vecchioni.
Seduto su un tram, uno dei motivi ricorrenti nella poetica di Jannacci, dice Vecchioni che «ho sempre considerato Enzo l’unico grande genio musicale della canzone che abbiamo avuto in Italia. Perché, guardate bene, gente grandissima come Guccini o De André rimane comunque su un cliché scontato, cultura e nobiltà della parola, che ha usato in modo eccelso. Invece Enzo fa ciò che non ti aspetti mai, sia nell’umorismo pirandelliano, quello dell’inaspettato, sia nel tragico. Partiva in un modo e tu non sapevi mai dove arrivava e che cosa voleva dire. Però alla fine ti rimaneva qualcosa dentro».
Inevitabilmente proprio quel tram, simbolo di Milano quanto Jannacci, è al centro del documentario: quello che lo accompagnava la domenica a vedere l’amato Milan, quello straziante del buco nero di Io e te, quello che Jannacci considerava la rappresentazione del mondo, dove salivano le persone che nascevano e da cui scendevano quelle destinate a morire. Perché per Jannacci tutto era metafora e se questa era incomprensibile, allora tanto meglio. Erano incomprensibili anche molte delle chiacchierate che faceva con gli amici, che prendevano per buono anche quello che non capivano. Racconta divertito Francesco Guccini che ogni telefonata di Jannacci lo faceva sprofondare nel terrore per via di quel suo strascicare le parole che gli rendeva impossibile capire lo scopo stesso della telefonata. «Quando, vergognandomi, gli dicevo per la terza volta che non avevo capito, lui chiudeva dicendo: “Va bene Guccini, va bene, ti richiamo”».
Quel suo modo di fare e di presentarsi così farsesco era sì in parte naturale, ma anche figlio dell’esperienza teatrale, della compagnia prima di Dario Fo e Giorgio Gaber e poi di Cochi & Renato e dell’esperienza del Derby. Più raggiungeva un livello elevato di surrealismo e di presa per i fondelli e più lui godeva, incurante del giudizio degli intellettuali, dei canoni, del successo. Che infatti, come racconta il figlio Paolo, per lui non contava né quando la sua popolarità era all’apice, né quando nessuno lo chiamava più. In questo senso, eccezionale è il contributo di Paolo Rossi, quando racconta dell’incomprensibile ai più autosabotaggio a Canzonissima: «Era primo in classifica con Vengo anch’io, no tu no e la settimana dopo si ripresenta con Gli zingari. Chiaramente crollò arrivando penultimo. Mi disse: “Nemmeno ultimo, penultimo”. Però si vedeva che la cosa l’aveva fatto godere molto».
Quello che più colpisce, però, è il fatto che Jannacci sia riuscito nell’impresa forse unica di partire dal particolare, iniziando la propria carriera come artista dialettale, per diventare di tutti. Tanto che, un po’ a sorpresa, Vasco Rossi, uno degli artisti più influenzati da lui, confessa di aver imparato ad amarlo proprio nella sua versione milanese. E se quel suo essere sempre a metà tra il comico e il tragico, malincomico se vogliamo, spesso non lo fece prendere sul serio, paradossalmente lo ha reso più trasversale di altri. Tanto da essere considerato un maestro sia da De André, che utilizzò la sua musica per accompagnare le parole di Via del Campo, che da J-Ax, protagonista nel film di una sguaiata versione della politicamente scorrettissima Veronica. Roba minima, s’intende, roba da Jannacci.