L’effetto immediato è sempre quello di una riapertura, sia essa di ferite o di inchieste. Assieme alle tracce si susseguono immagini e memorie di angosce adolescenziali, scatole a forma di cuore, latte caldo e lassativi, mentre l’eroe soffoca “sulle ceneri dei suoi nemici”. È una valanga emotiva, e ci travolge ancora.
Così era stato per la 20th Anniversary Edition di In Utero di dieci anni fa, così è per il nuovo box in uscita oggi. Ciascuna delle due riedizioni sembra essere fatta apposta per dilatare il tempo, tanto per l’ascolto quanto per la percezione dell’opera e del suo tempo in rapporto al nostro. Entrambe oppongono obiezioni ai due filoni di indagine sull’ultimo album dei Nirvana.
Da una parte quello “olografico”, intento a inquisire sulla paternità del testamento artistico di Kurt Cobain e sulle ulteriori firme che vi compaiono. Quelle della band, lanciata nell’iperuranio da Nevermind ma smaniosa di riappropriarsi della primitiva purezza grunge; quella di Steve Albini, traghettatore perfetto per questo percorso di redenzione; quelle di Geffen & co., che rifiutano il primo mix duro e puro («per evitare un suicidio commerciale», scrive Jeff Giles nel maggio 1993 con un’immagine rivelatasi assai infelice); quella di Scott Litt, esecutore materiale del compromesso che porta al remix dei singoli Heart-Shaped Box, All Apologies e Pennyroyal Tea.
«They fucked it up!», sentenzierà il poco conciliante Steve, il cui nome campeggia nella tracklist del 2013 che restituisce il suo missaggio originale dei tre pezzi incriminati e ricostruisce il processo che aveva preceduto le registrazioni ai Pachyderm Studios realizzate in soli sei giorni («Se ci vuole più di una settimana per fare un disco, qualcuno sta sbagliando qualcosa», scriveva il produttore nella lettera di intenti ripubblicata nella ristampa). Le demo incluse nell’edizione del ventennale, infatti, avevano ampliato la timeline anteriore all’uscita dell’album contestualizzando storicamente brani come Pennyroyal Tea, risalente all’epoca pre-Nevermind, e molti altri messi a punto in due anni di session sporadiche prima del febbraio 1993.
In maniera speculare, questa nuova edizione deluxe e super deluxe riempie di tappe ed eventi il tempo intercorso tra l’uscita del disco e la morte di Kurt Cobain. Dietro la front cover rimovibile con l’iconico angelo-manichino ci attendono pagine con foto inedite, poster, cartonati promozionali, copie di volantini, biglietti e pass per un backstage tragicamente deserto da trent’anni. Ma soprattutto vi ritroviamo le tracce dell’album, rimasterizzate da Bob Weston, assistente di Albini nelle registrazioni originali. Non ci sono outtake, né missaggi inediti; la figura del produttore sembra anzi recedere sullo sfondo per lasciare alla band il proscenio. In senso letterale, considerati i concerti inseriti nella tracklist: il concerto a Los Angeles del 30 dicembre 1993, l’ultima esibizione a Seattle (7 gennaio 1994) e sei estratti dalle date di Springfield, New York e Roma (il tutto ripulito da Jack Endino, già produttore di Bleach).
Questa scansione temporale è fondamentale per opporre prove storiche all’altra fazione, quella che interpreta In Utero come un testamento umano prima ancora che artistico, fondando la propria tesi su un’illusione cronologica, una percezione fin troppo ravvicinata dei due episodi cruciali, l’uscita dell’album e il suicidio di Kurt. Pochi mesi di distanza, certo, ma estremamente densi: l’accoglienza del disco da parte di critica, pubblico e band (insolitamente entusiastica quella dello stesso Cobain); il meraviglioso Unplugged per MTV, che sembrava aprire ai Nirvana nuovi scenari; il nuovo tour e quella notte romana di farmaci e champagne, sinistro preludio al tragico epilogo.
Dopo il quale erano immediatamente scattati i cacciatori di indizi, non paghi della lucidissima lettera d’addio di Kurt. Ovviamente, il primo indice era stato puntato su I Hate Myself and I Want to Die, titolo provvisorio dell’album e poi del brano destinato al lato B di Pennyroyal Tea con uscita prevista per aprile 1994. All’indomani della tragedia si era pensato bene di ritirarlo dalla circolazione, benché Cobain avesse sempre definito il titolo come «nothing more than a joke».
E poi il verso “Look on the bright side, suicide” (Milk It) e le colpe di cui l’autore assumeva tutto il peso in All Apologies. Segni sicuramente evidenti, ma non più di quelli disseminati nei testi di Bleach e dello stesso Nevermind, aperto dalle pistole di Smells Like Teen Spirit: “Load up on guns, bring your friends”. Ma resta la domanda: quale voce sta cantando, quella dell’autore, dell’uomo o del protagonista della canzone?
Tra le pressioni che gravano su Kurt dopo il 1991 ci sono anche quelle relative all’iper-interpretazione dei suoi testi, dai quali aveva cercato più volte di prendere le distanze fino all’immediata vigilia di In Utero: «Molti si aspettano che io scriva degli ultimi due anni e delle mie esperienze passate: la droga, la nascita di mia figlia, la pressione della stampa… C’è un po’ di tutto questo, ma per la maggior parte è molto impersonale». Eppure la sua soggettività incide i solchi dalla prima all’ultima traccia, dalla caccia alle streghe dei “giudici autonominati” e dai traumi familiari di Serve the Servants alla claustrofobia coniugale con rima “married-buried” di All Apologies. A cui si aggiungono i riferimenti al parto e alla riproduzione, alla malattia e all’ambivalenza riguardo alla notorietà rifuggita ma al contempo desiderata. E riguardo se stesso, nell’arte e nella vita: “I’m anemic royalty”.
Un urlo di sofferenza che riecheggia a trent’anni di distanza, ma pur sempre un urlo, rabbioso e sarcastico, non ancora arreso. Riascoltando In Utero ci accorgiamo di quanto il grido di Cobain ne sia firma espressiva: due pezzi su tutti, Scentless Apprentice e Tourette’s, con quei lamenti stridenti nel registro più alto a fare da cadenze laceranti.
Le ristampe ci aiutano a ricontestualizzare nel tempo il legame tra parola e musica e a rimettere l’accento sulla seconda, sottolineando peraltro l’importanza di Dave Grohl e Krist Novoselic. Le demo pubblicate nel 2013 si caratterizzavano per la loro natura strumentale, a testimonianza che nella scrittura di Kurt la musica precede sempre i testi, spesso conclusi poco prima della registrazione dopo lungo lavorio, come dimostrano le bozze pubblicate nei Diari (raccolta di suoi scritti uscita nel 2002), tra le cui pagine si legge: «Le parole non sono importanti quanto l’energia che deriva dalla musica. In un live dei Melvins non sarai in grado di capire tante parole, ma sentirai l’energia negativa».
E nei live inclusi nel box in uscita la musica ritrova anch’essa il proscenio, attraverso una performance che non ha bisogno di modificare gli arrangiamenti originali. Nel recensire il live di Seattle il Tribune aveva scritto di una band rilassata; altri, all’indomani dell’8 aprile, avrebbero letto in quell’atteggiamento — non così dissimile poi dalla classica “postura” di Cobain — il marchio della crescente depressione e dell’irreversibile distacco dal pubblico. Probabilmente c’è parte di verità nell’una e nell’altra visione. Altrettanto probabile un distacco ancor più irrimediabile tra la voce dell’uomo e quella del performer, che in quei giorni continua a proiettarsi nel futuro, orgoglioso dell’ultimo lavoro («Non ero fiero di Nevermind neanche la metà di quanto lo sia di questo disco»), ma già in cerca di nuove direzioni, siano esse sulle orme dei Butthole Surfers (che aprono il concerto di Seattle) o su quelle dei R.E.M. per un album «etereo e acustico» (sì, l’Unplugged qualche segnale lo aveva lanciato). È un’altra faccia della cronica ambivalenza di Kurt, della sua anemica regalità.
Quando la valanga giunge a valle con l’ultima versione di Tourette’s l’emozione finale è proprio il rimpianto per un futuro negato, per un tempo che vorremmo dilatare in avanti ben oltre le tappe imposte dalla storia. Ben più che un testamento, In Utero è ancora uno shock. Che paradossalmente, come si legge nell’elegiaco giudizio di Pitchfork, «riporta la sensazione di sentirsi vivi». What else could I write?