Nel quarantesimo anniversario di uscita di quello che è considerato il ritorno alla forma di Bob Dylan, ovvero Infidels, la pace sembra un’idea da fricchettoni, la religione è suicida e i musicisti voltano la testa dall’altra parte. Artista contraddittorio e da sempre contestato (per il successo, per il passaggio dall’acustico all’elettrico, per le posizioni politiche poco chiare), Dylan è sempre sempre salvato dal talento nel raccontare la storia americana come nessun altro. Infidels mette in connessione il Dylan cantautore politico e il Dylan provocatore, che con il suo fare ermetico/criptico mette in crisi il pubblico, lanciando bombette qua e là come se nulla fosse e rovista nel torbido del concetto di religione e nell’idea di credere in qualcosa, punto importante nelle sue svolte esistenzial-musicali.
Dylan è ebreo di nascita e passa da essere un laico paladino dei diritti civili a cristiano rinato, convinto al grande passo dalla sua ragazza dell’epoca. Dal ’79 all’81 pubblica dischi di matrice cristiana che mettono in imbarazzo quelli che ancora lo vedevano come un ribelle contro tutti i sistemi. La critica considera quei tre dischi privi di vita, a parte Slow Train Coming che invece ha dei momenti di sicuro interesse. Nel 1983 Infidels segna – finalmente! – l’abbandono di certa retorica cristiana e un ritorno a uno stile apparentemente rock che fa saltare tutti sulla sedia.
Per la produzione del disco i primi papabili sono personaggi con una certa fama “estrema”: Bowie, Zappa, Costello. Poi alla fine, probabilmente pensando a qualcosa che permettesse ai versi di non essere schiacciati dagli arrangiamenti o da certe ingombranti personalità, il compito viene dato al moderato Mark Knopfler, il guitar hero e leader dei Dire Straits che già aveva collaborato a Slow Train Coming. Scelta azzeccatissima, perché Knopfler viene in qualche modo trascinato fuori dalla sua comfort zone e costretto a entrare nella mente di un Dylan musicalmente anarchico, per quanto concentratissimo dal punto di vista dei testi. La cosa crea una sana tensione in quanto il chitarrista e produttore deve stare dietro ai colpi di testa di Dylan, tanto che il sound è lontano da qualsiasi ipotesi di clone dei Dire Straits, anzi risulta particolarmente muscolare e incazzato.
Uno dei motivi del feeling “crudo” è che Knopfler non riuscì a missare il disco a causa di un tour in arrivo, così Dylan decise di punto in bianco di fare tutto da solo. Altra scelta fondamentale nella resa del progetto è la presenza alla chitarra dell’ex Rolling Stones Mick Taylor e alla sezione ritmica di Sly & Robbie, geniali produttori reggae/dub. La differenza la fa la voce abrasiva di Dylan che traina il tutto verso una sorta di soft punk che non presenta velleità commerciali come si potrebbe supporre (il singolo e traccia d’apertura, lo strano reggae-folk Jokerman fu in effetti suonato live nella trasmissione di David Letterman con una backing band formata dalla sezione ritmica dei Plugz, grande gruppo latin punk losangelino).
Dell’esperienza della conversione rimane una specie di reazione all’indigestione religiosa, la spiritualità viene individuata da Dylan solo ed esclusivamente nella musica, facendogli dire in una intervista a Newsweek che «non seguo nessun predicatore, nessun rabbino, nessun evangelista: ho imparato più dalle canzoni che da loro». Certo è che le citazioni bibliche non mancano anche in questo disco, una tradizione che da sempre accompagna Dylan che ne è stato ovviamente imbevuto in gioventù, ma usate in maniera paranoico-critica per citare Dalì. Jokerman, ad esempio, apparentemente se la prende coi populisti, coi manipolatori del potere, ma in fondo con gli ascoltatori che si fermano alla superficie (Dylan stesso può essere il Jokerman della canzone) che non affrontano la complessità e non fanno i conti tanto con la follia quanto con un sano realismo.
Già dalla successiva canzone Sweetheart Like You, il singolo che riesce a bucare le charts, Dylan finisce nel mirino dei politically correct per il passaggio “una donna come te dovrebbe essere a casa, è quello il tuo posto, a prenderti cura di una persona gentile che non sa come farti del male”. Dietro al testo potrebbe celarsi una critica alla Chiesa, che si è allontanata dall’insegnamento iniziale di Cristo e delle scritture. Ci sono altre interpretazioni: c’è chi dice che sia una frecciata all’intervento americano in America Centrale, chi un ritorno a un amore vecchio stile dato per disperso e di cui si ha nostalgia.
Dylan potrebbe aver scritto la canzone come ode alla sua socia in affari, la manager Debbie Gold. Lui stesso fa notare che i versi criticati significano che la protagonista dovrebbe semplicemente tornare a casa intesa come posto in cui può essere se stessa, amare ed essere amata. Il fatto che Joni Mitchell la citi come la sua canzone preferita di Dylan implica che forse molta malizia è usata nel leggere il cantautore (e a proposito di cantautori, il brano sarà rifatto in italiano da Francesco De Gregori).
Ma è la terza canzone a far drizzare le orecchie. Neighborhood Bully, che musicalmente sembra una specie di incontro tra Springsteen e i Television, viene citata spesso come ode al sionismo, al popolo ebraico che è stato cacciato, odiato, colpito, circondato da vicini ostili e che quindi vuole la sua legittima terra ad ogni costo ed è considerato per questo come un cieco “bullo di quartiere”. Un argomento che rende la canzone di inquietante attualità. Venne scritta durante l’invasione di Israele in Libano e ancora rende infuocati i forum che la commentano.
È chiaro che Dylan non è certo trasparente a proposito di certe sue frequentazioni (vedi Meir Kahane) e che all’appello del 2011 a boicottare Israele promosso da Roger Waters rispose andandoci a suonare. Ma è anche vero che leggendo il testo ci troviamo di fronte appunto a qualcosa di ambiguo (tanto che la visione della vittima che si difende con armi obsolete rimanda ai palestinesi più che agli israeliani, come fosse uno specchio deformante messo in faccia a questi ultimi) che provoca l’ascoltatore a prendere una posizione: vuole legittimare il sionismo o è una sottile critica della vittima che diventa carnefice? È una lode alle legittime azioni, anche criminose, dello stato di Israele o una grandiosa presa per il culo di quest’ultimo?
Ecco, probabilmente la verità sta nella figura iniziale del Jokerman. Dylan disse al tempo a Rolling Stone che Neighborhood Bully non era una canzone politica, che in Israele c’erano 20 partiti e non era adatta a nessuno di essi e che «se ascolti attentamente potrebbe veramente riguardare altre cose (…) Non so quale sia la politica di Israele, semplicemente non lo so». Dylan però sapeva bene di riuscire a sollevare polveroni, a scuotere nel bene o nel male le coscienze, e la canzone è scritta proprio a questo scopo: tant’è che al concerto in Israele non la suonò e non è stata mai suonata dal vivo, il che ci fa pensare che se fosse stato un inno veramente sentito sarebbe stata fissa nelle scalette dei concerti.
Il fatto che sia un esperimento sfuggito di mano è probabilmente confermato da License to Kill, che è un atto di accusa all’imperialismo americano, alla violenza dell’uomo e alla corsa spaziale, al self-made man che tratta il pianeta come se potesse farne quello che vuole, su una base slow rock che nonostante sia piuttosto codificata (e la più Dire Straits di tutte) è rimasta nel cuore dei fan probabilmente a causa della sua melodia efficace. In Man of Peace Dylan si ritrova ancora a giocare con l’ambiguità di un sanguigno hard blues: l’uomo che predica la pace e che in realtà prepara la guerra alle spalle dei popoli, il Satana della situazione, quello che si sostituisce a Cristo e che è una metafora del potere temporale e religioso che inganna le masse a proprio piacimento. E in Union Sundown si scaglia contro il capitalismo che sfrutta la manodopera del terzo mondo pagandola “30 cents a day”, un inno no global ante litteram che contiene frasi lapidarie come “un giorno anche il giardino di casa tua finirà per essere fuorilegge”, perché il capitalismo non ha legge alcuna e si impone contro tutti e tutto.
“La democrazia non governa questo mondo / meglio che te lo ficchi in testa / questo mondo è governato dalla violenza / ma immagino sia meglio non dirlo”: la sintesi/manifesto del disco è in queste righe, dove a salvarci è solo il riconoscerci l’un l’altro come individui liberi. Qui arriva il picco del disco, cioè quella bolla di soul moderno chiamata I and I in cui Dylan si mette a nudo con queste parole: “Qualcun altro sta parlando con la mia bocca, ma io ascolto solo il mio cuore”. È evidente che Dylan qui vuole chiarire che una cosa è l’uomo e un’altra l’artista che canta di quello che vede e che fondamentalmente lo fa per tutti suo malgrado (“Ho fatto scarpe per chiunque, anche per te, mentre io vado ancora scalzo”). Normale che, a ricordare cosa conta veramente, il disco si chiuda con una canzone d’amore, la sostenuta ballad Don’t Fall Apart on Me Tonight.
Infidels mantiene quello che promette nel titolo: è l’album di un perenne infedele, la cui musica risulta ancora fresca e “bastarda”, al quale non si può credere veramente. Ma a distanza di quarant’anni, quando oggi gli infedeli si massacrano senza pietà, sarebbe bello sentirlo prendere posizione contro gli oppressi del conflitto in corso. Non era forse lui a cantare “the times they are a-changin’”?