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Jeff Beck è stato anche il padrino del techno blues

Riascoltare gli album pubblicati a cavallo fra anni '90 e 2000 ('Who Else!', 'You Had It Coming' e 'Jeff') per capire come il chitarrista ha evitato di diventare un pezzo da museo

Foto: Joby Sessions/Guitarist Magazine/Future via Getty Images

Quando finirà la sua storia inizierà la sua leggenda. Questo si dice quando un grande innovatore ci lascia, soprattutto nella musica. Così è stato anche per Jeff Beck: stroncato da una meningite batterica, è stato ricordato da coccodrilli più o meno ispirati che ne ricordano le gesta di chitarrista formidabile, innovatore dello strumento, capace di tirare fuori dalla chitarra “mostri” (un esempio per tutti: il solo allucinante in What God Wants di Roger Waters, dove trasforma la chitarra elettrica in una scimmia vivisezionata che grida di dolore), ma senza “facili” trucchetti alla Adrian Belew & company.

Con l’effettistica sempre mirata e asciutta, tutto il suono usciva dalle mani come da sempre è stato per i bluesman di razza (è evidente nel suo suono modulato l’influenza dei grandi cantanti blues come Blind Lemon Jefferson più che di veri e propri chitarristi). La critica si è prodotta in elogi sperticati alle sue innovazioni: dall’uso del feedback, scoperta casuale che anticipa gli esperimenti di Hendrix, al suo singolare rapporto con i pomelli del volume che usava direttamente come fade out senza passare per pedali di espressione, così come l’uso non ortodosso del ponte dalla cui percussione tirava fuori ogni tipo di vibrazione. Bobby Solo, che a Sanremo ebbe a che fare con gli Yardbirds, ha detto in un’intervista a Red Ronnie che Jeff toglieva la vernice alla chitarra con la carta vetrata per farla “risuonare” in tutte le sue parti, liberandola dal concetto di “produzione in serie” (tanto che in effetti la sua prima chitarra fu proprio autocostruita).

Hanno tutti ricordato che col Jeff Beck Group (nel quale militavano Rod Stewart e Ron Wood) ha praticamente dato il la all’heavy metal e in un certo senso Beck è stato un esempio anche per il punk, avendo rifiutato di entrare in band come i Rolling Stones e da vero ribelle, metteva tanta soggezione che i Pink Floyd non ebbero il coraggio di chiamarlo per sostituire Syd Barrett. È stato ricordato che, insieme a John McLaughlin e altri ha dato nuova linfa alla musica strumentale sviluppando un suo personale concetto di fusion, testimoniato dall’album Blow by Blow molto più vicino al blues che al jazz rock. Ed è proprio sul blues che tutti si riuniscono nel ricordo, perché è ovvio che il nostro fosse un asso in quella musica che non si impara a scuola ma si vive sulla propria pelle.

Ma è come se a un certo punto della sua carriera Jeff Beck non avesse fatto più nulla di interessante come compositore. Lo si vuole chiuso in una teca, riverito come un santo della chitarra. Se degli anni ’80 si ricordano le collaborazioni con Nile Rodgers in maniera sempre piuttosto vaga, nella narrazione il chitarrista si trasforma in una specie di turnista di lusso, capace di cose funamboliche ma per interposta persona. È vero, lo testimoniano alcune feat come quelle con il succitato Waters, Bon Jovi, Kate Bush, Morrissey, Brian Wilson. In tutti questi casi è strepitoso. Ma la realtà è che il Jeff Beck degli anni 2000 non è stato solo questo. Anzi, è proprio l’opposto del turnista, è scomodo e non fa quello che vuoi, che chiedi e che ti aspetti. Il Jeff Beck del nuovo millennio, che la critica voglia o no, è ancora – se non di più di prima – avanguardia pura e lanciato verso un nuovo tipo di ibrido di cui probabilmente è padrino: il techno blues.

L’uscita di Who Else! (1999) non lascia adito a dubbi già dal titolo. Chi altro potrebbe osare tanto? Da uno come Beck che ha sempre odiato ripetersi e che ha sempre voltato le spalle alle classifiche che avrebbe potuto dominare non possiamo pretendere solo che suoni il blues tradizionale o il rock dei favolosi anni ’60. Significherebbe mettergli le pantofole per rimanere – noi ascoltatori – ancorati a una confort zone assurda e antimusicale. Nel caso di Who Else! Beck attua uno strappo con le convenzioni e si butta nell’elettronica, flitrando con la techno, la jungle e con gli ultimi ritrovati dell’effettistica senza però mai strafare e lasciando l’ultima parola alle proprie mani e al loro impatto sullo strumento.

Aiutato dalla socia Jennifer Batten, altra star della sei corde famosa per essere il braccio chitarristico di Michael Jackson, in Who Else! Jeff porta le tecniche ardite del Muddy Waters elettrico direttamente nel futuro. Se il bluesman usava la leva in maniera spasmodica e quasi robotica, l’utilizzo di slicer e di loop spezzettati ne sono praticamente l’aggiornamento. Il suono sporco della chitarra di Beck sembra uscire da un’autodemolizione lorda di gasolio rancido, come se osse andato al rave con l’elettrica al collo a rubare benzina col tubo per alimentare tanto i sound system quanto il suo amplificatorino da busker. In un certo senso, i suoi esperimenti possono essere accorpati a quelli del Bowie di Earthling (non a caso i due collaborarono insieme): le vecchie glorie che osservano il presente e lo rimodellano per omaggiare il futuro.

Se il Bowie e il Gabrels di Outside e di Earthling sono all’epoca applauditi per il loro coraggio, il Beck elettronico, al contrario, spaventa. Le recensioni saranno in un certo senso tutte ingenerose, cercando di concentrarsi più sulla solita verve chitarristica di Beck che sul disco nel complesso, a volte uscendone delusi perché appunto manca loro una visione a 360 gradi dell’opera, sperando che quello di Beck sia solo uno scherzo di passaggio, un divertissment di breve durata. E invece no: nel 2000 sfodera quello che è probabilmente il suo capolavoro in questo senso, You Had It Coming, trovando una quadra tra elettronica e blues che potrebbe trovare eguali solo negli esperimenti solisti di un Agata dei Melt-Banana, fatte le dovute differenze con lo schizioide chitarrista giapponese (sicuramente lontano dal rigore di Beck).

Già dalle mani nere in copertina che rievocano storie di lavori forzati nei campi e di lotte per diritti civili, Jeff Beck ha un sound che più black non si può, e nello stesso tempo gioca con il mondo moderno in una partita a dadi. L’artificiale e il naturale si mescolano tanto che in Blackbird si rimane di sasso nel perfetto duetto tra un merlo vero e la chitarra di Beck che lo imita alla perfezione: a un altro il giochetto sarebbe riuscito in maniera penosa, lui invece risulta non credibile, di più. Si mette anche a suonare arie indiane e mediorientali, cosa che sulla carta non è nulla di originale: ma come lo fa lui… beh, è come se un arco mentre scocca una freccia si mettesse a suonare Ravi Shankar solo con la forza dell’aria da essa mossa.

Che poi a volte il nostro si porti sull’orlo del coattume non è un problema, anzi: il blues lo prevede. Soprattutto quello degli inizi, in cui le dodici battute sono la legge di strada e le variazioni di intelletto sono nei dettagli, nelle vibrazioni, nelle parole. Qui di parole ce ne sono poche, ma questo non impedisce a Beck di continuare gli esperimenti col successivo album Jeff e vincere un Grammy per la strumentale Plan B, un successo che rimane in ombra per lo scarso appeal dell’album, relegato ai bassi gradini delle classifiche proprio grazie a una specie di stigma che lo mette tra le uscite dei grandi virtuosi che vogliono fare i fichi senza metterci sostanza, vedi Steve Vai o Joe Satriani. Di costoro infatti nulla di male si può dire, ma in definitiva sulla qualità del loro dischi si glissa alla grande.

Se è vero che il loro album “a solo” sono discutibili anche e soprattutto per l’autoreferenzialità da riccardoni, a Beck non interessa l’ego, ma capire cosa c’è dietro il contemporaneo, cosa c’è dietro la danza tribale dei nuovi raduni giovanili, cosa c’è dietro un computer acceso e lanciato nella rete. La risposta è che c’è anche lì un cuore pulsante, “un blues da piangere” per citare i Perigeo, un desiderio di rompere le catene della schiavitù del reale. Se i ritmi shuffle di un Bo Diddley avevano nel periodo d’oro del rock’n’roll la cadenza di un’automobile che si mette in moto verso il futuro portandoti lontano, così le ritmiche computerizzate o campionate danno lo stesso gas al blues postatomico di Jeff. Il quale, a differenza di molti suoi colleghi virtuosi, vede lontano: così lontano da affidare il suo lavoro a gente come Dean Garcia dei Curve, MC Eric dei Technotronic e gli Apollo 440 e facendo entrare nel team anche il mago del loop chitarristico/acustico David Torn.

Insomma, si butta senza rete dove molti temono di rompersi le ossa: lui niente, non batte ciglio e fa quello che vuole, seguendo la – personalissima quanto condivisibile –  regola di infrangere sempre le regole. E forse proprio come estremo step, il successivo disco Emotion and Commotion è un ritorno a qualcosa di più orecchiabile per gli ascoltatori, una specie di tongue-in-cheek classicista. Come a dimostrare che alla fine gli ascolti delle masse sono fondamentalmente ammaestrati, l’album arriverà all’undicesimo posto in classifica. Sentiamo proprio le vocine conservatrici che dicono «dai Beck, basta fare ‘ste cagate elettroniche, torna alle radici, a quello che sai fare meglio».

Il chitarrista metterà da parte in effetti i suoi esperimenti, ma fortunatamente solo per rinnovarsi ancora una volta. Non abbandonerà infatti la voglia di scandalizzare: il suo ultimo disco – uscito nel 2022, tanto per essere chiari – è 18, in coppia con Johnny Depp, un album di cover a prima vista incoerenti tra di loro che spiazzerà critica e pubblico, indecisi se vederla come una cosa seria o come un dopolavoro di due star che non hanno nulla da dimostrare. Di questi dubbi Jeff Beck non se ne curava affatto. «La questione è che io non mi sorprendo mai abbastanza», diceva in un’intervista del 2009. Ed è grazie a questo atteggiamento che ha dribblato la trappola museale della leggenda rimanendo storia: non solo delle sei corde, ma della musica intera.

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