Rolling Stone Italia

Jeff Buckley e l’incantevole malinconia di ‘Grace’

30 anni fa debuttava un ragazzo pieno di aspirazioni e di ombre, passate e future. La recensione originale di Rolling Stone

Foto di David Tonge/Getty Images

Jeff Buckley suona come un uomo che non sa ancora chi vuole essere, e l’incertezza è forse l’unica cosa che tiene insieme Grace, il suo album di debutto. È anche un’incertezza coraggiosa, dello stesso tipo di quella dei campioni sportivi delle superiori, che sembrano poter contare su tutta la sicurezza del mondo ma che in realtà sono schiacciati dalle crescenti aspettative. Buckley, con l’aiuto della sua potente band, finisce per tirare fuori cose che nessun altro giovane cantante-cantautore-chitarrista si sognerebbe di pensare: chissà cosa lo possedeva quando ha registrato il cupo, bellissimo standard Liliac Wine? Ma la domanda più grande è, come diamine è riuscito a farlo funzionare?

Buckley ha un buono orecchio e una sconfinata collezione di dischi: mischia riferimenti jazz, R&B, blues e rock con un’apparente nonchalance che potrebbe sembrare quasi un motivo di vanto. Le sue canzoni sono tutto fuorché improvvisate, e a volte i suoi meticolosi arrangiamenti suonano troppo orchestrati e decorati. Ma forse vuol dire che quel movimento e quella particolare tinta significavano talmente tanto per lui che alla fine ci si è un po’ perso dentro. Ci sono peccati ben peggiori.

La storia principale viene però raccontata dalla voce sinuosa e immediata di Buckley: le sue inflessioni tremolano con dietro l’ombra di Billie Holiday e Chet Baker. Altre influenze sono in cantiere. Ansioso di lasciare il segno, Buckley non sembra voler parlare del padre, il cantautore scomparso Tim Buckley. Ma la genetica parla chiaro: il piccolo tesoro del 1972 del padre, Greetings from LA, mostra che figlio e genitore condividono una passione per i fraseggi jazz e i falsetti spettrali.

Ma i vocalizzi di Buckley non sempre fanno centro: non sembra frustrato o disperato abbastanza per farsi carico di Hallelujah di Leonard Cohen. Ma la sua stregata Liliac Wine, con il suo suono profondo, praticamente aggiunge anni alla sua età. La sua voce sembra pesare molto di più, e le lacrime non verranno fuori nella solita maniera. “Ho fatto il vino con l’albero di lillà, ho messo il cuore nella ricetta” canta, come se il suo cuore fosse davvero nella ricetta. Come ogni cantante che si rispetti, sa bene che il vino di lillà non viene mai bene senza il cuore.

Iscriviti