In uno dei corridoi della casa di Dickey Betts a Osprey, Florida, sono esposti i ricordi d’una vita: i premi per gli album venduti con l’Allman Brothers Band, fotografie dei compagni della band scomparsi, chitarre vintage. Ci sono anche due lettere incorniciate datate 1975. «Ho saputo che il vostro tour è stato un gran successo», si legge in una. E nell’altra, del mese successivo: «La mia campagna sta andando bene grazie ad amici come te».
Entrambe le lettere sono firmate da Jimmy Carter, che all’epoca era nel bel mezzo della campagna per le presidenziali. L’Allman Brothers Band, originaria come lui della Georgia, aveva contribuito alla raccolta fondi per la campagna che l’ha portato alla Casa Bianca, dove ha avuto successi e delusioni. Tra i primi, l’accordo di Camp David tra Egitto e Israele, la promozione dei diritti umani e dell’energia solare, l’avere arginato l’Unione Sovietica e gli uomini forti dei Paesi dell’America Latina.
Carter ha lasciato dietri di sé un’altra eredità. Prima di Bill Clinton, che è com’è noto grande amante di rock classico e jazz, e prima di Obama e della sua passione per l’hip hop, Carter è stato il primo Presidente americano che ha legato il suo nome al rock. Non è cresciuto con quella musica, che neanche esisteva quand’era adolescente, ma ne ha compreso l’impatto e la portata, nonché il business che aveva creato negli anni ’70 (vedi il documentario di Mary Wharton Jimmy Carter: Rock & Roll President). Nessun presidente prima di lui ha flirtato col rock in quella maniera, con dosi di sincerità e furbizia. La presidenza Carter ha aperto la strada alle visite nello Studio Ovale di Beyoncé e Kid Rock e ai concerti per raccogliere fondi, creando una collezione di dischi alla Casa Bianca degna d’un grande appassionato.
Non che il legame di Carter con la cultura rock fosse scontato. È nato nel 1924, una trentina d’anni prima dell’avvento del rock’n’roll, e ha frequentato l’Accademia Navale degli Stati Uniti diventato ufficiale di Marina, una scelta lontana dalla posizione anti-militarista di tanti rocker. È diventato un capitalista gestendo un’azienda agricola, un negozio e un magazzino di arachidi a conduzione familiare. All’epoca della svolta elettrica di Dylan nel 1965, Carter aveva 41 anni, l’età media di chi era inorridito o semplicemente per nulla interessato a quel che stava accadendo nel rock. Aveva l’aria di un timido e rassicurante sacerdote – per metterla giù in termini Southern rock, era meno Betts e più Gregg Allman.
A renderlo diverso era l’interesse per i diritti civili. Nel 1964, lui e la moglie Roslyn furono gli unici bianchi a votare per l’ammissione degli afroamericani alla Plains Baptist Church. Appassionato del periodo folk di Dylan, ne lodava la compassione e lo sforzo di cantare per la pace e contro la discriminazione razziale. In un discorso di molti anni dopo, negli anni ’70, citava Maggie’s Farm come la canzone che gli aveva fatto capire le relazioni tra proprietari terrieri e lavoratori agricoli.
Ha cominciato ad ascoltare rock nel 1971, quando durante la campagna per le elezioni a governatore della Georgia si è fermato nell’ufficio di Macon della Capricorn Records, che all’epoca era la casa del rock sudista, con un catalogo che comprendeva Allman, Charlie Daniels Band, Marshall Tucker Band. Fece amicizia con Phil Walden, fondatore della Capricorn e come lui imprenditore del Sud dalla mentalità progressista. È stato allora che ha cominciato a frequentare quel giro, assistendo tra le altre cose alle session del side project di Betts chiamato Highway Call. «È venuto in studio due o tre volte», raccontava Betts. «Quando’è diventato governatore si è vista la differenza. È come se fosse uscito il sole nella Georgia. Era diventato il Peach State e non più lo Stato che si ha paura ad attraversare per arrivare in Florida. Abbiamo pensato: quel tipo è ok».
Walden dev’essere stato contento della legge anti-pirateria firmata da Carter nel 1971. Da governatore, ha proclamato agosto Music Recording Month in Georgia. Nel 1974, Carter ha finalmente incontrato uno dei suoi eroi quando Dylan e la Band hanno suonato all’Omni di Atlanta, dove, secondo un articolo di una testata locale, il governatore ha visto il concerto «avvolto dai fumi d’erba». Secondo Elvin Bishop, altro importante rocker sudista, Carter era «l’unico politico che aveva le palle per venire a un concerto rock». Era stato il figlio di Carter, Chip, un dylaniano che era andato in pellegrinaggio a Woodstock per stringere la mano al suo idolo nel 1968, a proporgli di andare al concerto.
Carter invitò Dylan e i suoi a un after-show nella villa che aveva in quanto governatore, una mossa impensabile per l’epoca, soprattutto per un politico del Sud. Furono serviti prosciutto, grits e uova strapazzate, «una colazione mattutina informale, non tanto diversa da quella che le band fanno in hotel alle 2 del mattino», diceva Alex Hodges, dirigente della Nederlander, che all’epoca gestiva l’agenzia di booking Paragon a Macon. «Jimmy non era un tipo rigido, ma per niente». Il governatore fece fare a Dylan un tour privato della proprietà. Nel documentario Rock & Roll President, Carter dice che Dylan gli domandò della sua fede cristiana, mentre il musicista afferma che «la prima cosa che fece fu citarmi le mie canzoni. Mi resi conto che le mie canzoni avevano raggiunto l’establishment. Non avevo alcuna esperienza in quel mondo… Mi tranquillizzò non guardandomi dall’alto verso il basso e dimostrando che apprezzava sinceramente le mie canzoni».
Robbie Robertson della Band la definì «la residenza del governatore più hippy di sempre». Arrivato dopo che buona parte degli ospiti se n’erano andati, Gregg Allman fu accolto da Carter a piedi nudi e in jeans (nel suo libro di memorie Testimony, Robertson ricorda di aver visto Allman e un altro musicista incline all’eccesso, il batterista Buddy Miles, uscire da un bagno, mentre Chip Carter gli «faceva l’occhiolino»).
In quello stesso anno Carter annunciò l’intenzione di correre per la presidenza. Sognava di far suonare Dylan a una raccolta fondi, alla fine non se ne fece nulla, ma riuscì comunque a usare a suo vantaggio l’influsso del rock e i portafogli del nuovo pubblico che lo seguiva e che era sempre più numeroso. Quando dopo un anno, la sua campagna elettorale aveva un rosso di 300 mila dollari, i suoi nuovi amici del Southern rock corsero in suo soccorso. Nell’autunno del 1975, gli Allman Brothers raccolsero oltre 64 mila dollari con un concerto a Providence, Rhode Island, di cui circa metà finirono alla campagna di Carter. «Non ci sembrava di fare alcun sacrificio appoggiando un politico», dice Hodges. «Jimmy apprezzava davvero la musica, non solo le hit. Era davvero fan delle nostre band».
Con un’altra mossa innovativa, ai fan che acquistavano i biglietti veniva chiesto di firmare un voucher includendo il proprio indirizzo di casa per dimostrare che l’acquisto del biglietto equivaleva a una donazione, rientrando così nei limiti della legge introdotta dopo il Watergate. «Jimmy era sveglio», ha detto Betts. «Abbiamo raccolto milioni di dollari e all’epoca erano un sacco di soldi. Non ne abbiamo mai parlato in interviste o altro, l’abbiamo fatto perché lui ha cambiato radicalmente l’immagine della Georgia».
L’evento pro Carter più clamoroso di tenne in uno stadio della Florida. C’erano Betts, Daniels, la Marshall Tucker Band, Bonnie Bramlett e gli Outlaws. Fruttò alla campagna circa 280 mila dollari, l’equivalente di un milione di dollari di oggi. Carter non ha solo anticipato Clinton ma, in quanto a micro donazioni, è arrivato ben prima di Bernie Sanders. Ha sfruttato il rock come nessuno prima.
Il bello è che Carter non ha pagato il prezzo dell’amicizia con quei rocker mezzo tossici (durante la campagna elettorale, un roadie degli Allman finì in prigione per aver fornito cocaina a Gregg). «Chi non vuole un Presidente che ama questa musica e che è orgoglioso di queste amicizie può votare per qualcun altro», diceva. Per dimostrare la sincerità della sua passione, in una tappa della campagna elettorale, di fonte a una convention di proprietari di negozi di dischi, ha citato versi di Blowin’ in the Wind e Yesterday. E in un’intervista si è vantato dell’influenza profonda esercitata dal rock sullo stile di vita americano, facendo i nomi di Dylan, degli Allman e di Simon & Garfunkel. È stato anche fotografato mentre pescava con indosso una t-shirt degli Allman. Si faceva chiamare Jimmy, e non col nome completo che era James, e questo lo faceva sembrare un session man di Macon.
Il passaggio generazionale sfruttato da Carter è stato più che mai evidente durante la convention democratica del 1976. Nel discorso di accettazione al Madison Square Garden, Carter sembrava non tanto un politico, quanto il proprietario di una radio rock. Anche in quell’occasione citò It’s Alright, Ma (I’m Only Bleeding) del suo cantautore preferito: «Abbiamo un’America che, per dirla con Bob Dylan, è impegnata a nascere, non a morire». Tre giorni prima delle elezioni, la Band salutò Carter al Saturday Night Live suonando Georgia on My Mind. Pochi giorni dopo, Carter vinse le elezioni.
Una volta alla Casa Bianca, il legame coi rocker non si è allentato, ma è stato meno ostentato. Carter non è stato il primo presidente a invitare delle rockstar alla Casa Bianca. Richard Nixon aveva accolto i Carpenters, Frank Sinatra, Merle Haggard e Johnny Cash per i concerti ufficiali. E Gerald Ford, il predecessore di Carter, aveva chiamato George Harrison e Ravi Shankar nel 1974 dopo che il figlio Jack, aveva stretto amicizia con l’ex Beatle. Ma è stato Carter a portare il legame col rock a un nuovo livello.
Paul Simon e Aretha Franklin hanno cantato ai suoi balli inaugurali. Durante il tour di reunion del 1977, Crosby, Stills & Nash hanno fatto visita alla Casa Bianca. A un certo punto, uno dei loro manager si è avvicinato furtivamente a una finestra, ha acceso uno spinello e l’ha spento subito, solo per dire di averlo fatto. In quello stesso anno, Willie Nelson e Chip, il figlio di Carter, hanno fumato erba sul tetto della Casa Bianca. Nel 1978, Carter ha ingaggiato l’Atlanta Rhythm Section, nota i cavalli di battaglia del soft rock sudista come So Into You e Imaginary Lover, affinché suonasse sul prato sud della Casa Bianca. Può sembrare una cosa banale, visto che Obama ha invitato i Grateful Dead alla Casa Bianca subito dopo che avevano suonato a uno dei suoi balli inaugurali, ma la verità è che la frequentazione del rock da parte di Carter era senza precedenti all’epoca.
Il suo contributo più duraturo alla “rockizzazione” della Casa Bianca è datato 1979. Su invito dell’associazione delle case discografiche, ha contribuito all’aggiornamento della White House Record Library, la raccolta di vinili inaugurata nel 1973 durante l’amministrazione Nixon. La scorta originale comprendeva pochi album rock (Jefferson Airplane, Creedence Clearwater Revival, Who), country e folk. Con l’aiuto di critici rock, jazz e country, tra cui Paul Nelson, all’epoca redattore di Rolling Stone, nella discoteca della Casa Bianca sono entrate copie in vinile di Blood on the Tracks, Born to Run, Let It Bleed, Led Zeppelin IV e Hunky Dory, oltre ai pezzi amatissimi dalla critica come Trout Mask Replica di Captain Beefheart, Hardcore Jollies dei Funkadelic e The Gilded Place of Sin dei Flying Burrito Brothers. La White House Record Library è uno dei lasciti rock più significativi dei suoi quattro anni di mandato.
La sconfitta di Carter alle elezioni del 1980 è coincisa col declino del Southern rock. La Capricorn Records era fallita l’anno prima, la new wave e la disco music erano diventati il suono del mainstream. Con un simbolismo decisamente appropriato, la Record Library della Casa Bianca è stata traslocata subito dopo l’insediamento di Ronald Reagan ed è attualmente conservata in una struttura fuori Washington, con gli LP ancora custoditi nelle custodie originali col logo della Casa Bianca.
L’ex presidente ha mantenuto saltuariamente i contatti con la comunità rock che ha contribuito alla sua elezione. Alla fine degli anni ’80 è stato visto a un concerto di Dylan. Proprio Carter ha presentato il musicista quando è stato premiato come MusiCares’ Person of the Year nel 2015. È stato visto anche al funerale di Gregg Allman, praticamente la chiusura di un cerchio. «Mi avete fatto eleggere», ha detto meravigliato quando di recente ha incontrato alcuni dei suoi amici del mondo della musica della Georgia.
Ora che alla Casa Bianca ci vanno Kid Rock e Ted Nugent a farsi foto con Donald Trump, l’idea che dei rocker magari ribelli si intrattengano con un Presidente non è più sconvolgente. Carter ci è arrivato per primo e il suo amore per il Southern rock ha riempito le casse della sua campagna elettorale, oltre a renderlo una figura accettabile anche agli occhi di scettici come Hunter S. Thompson. In un’epoca in cui i rocker sembravano tipi poco raccomandabili, Carter ha invitato a Washington gli underdog che quella musica rappresentava e sosteneva. Ne ha fatto la colonna sonora del partito, e non solo.
Da Rolling Stone US.