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Joe Satriani, Jeff Beck e l’arte di rischiare

Un grande chitarrista rende omaggio a uno dei musicisti che gli hanno insegnato l'arte di fare rock. «Andava oltre la tecnica. Sembrava che la chitarra fosse innamorata delle sue mani»

Foto: Jen Rosenstein/Future Publishing/Getty Images

Quando ho iniziato a suonare, avevo l’esempio di musicisti come Jeff Beck, Jimmy Page, Eric Clapton, Keith Richards, Pete Townshend, George Harrison, Martin Barre, Jimi Hendrix. Sono loro che mi hanno iniziato al modo in cui si suona davvero la chitarra elettrica. Non conoscevo ancora i musicisti che li avevano influenzati come Buddy Guy, B.B. King o Albert King.

È stato affascinante creare un mio stile basandomi sui musicisti di blues elettrico di seconda generazione e scoprire solo in un secondo tempo da chi avevano preso. E dopo avere ascoltato Buddy Guy chiedermi: «Ok, ma lui a chi si è ispirato?».

Eppure, che lo facesse di proposito o meno, Jeff aveva un atteggiamento irriverente ogniqualvolta rendeva omaggio ai bluesmen. Perché alla fine Jeff Beck era Jeff Beck e basta. Con chiunque suonasse, prendeva il comando e lasciava il segno.

Eric Clapton era un musicista rispettoso. Te lo diceva chiaramente: «Queste son le mie radici. Ho studiato. Ho creato il mio stile ispirandomi a queste persone e ora ti mostro tutto». Jimmy Page era un po’ più matto. Hendrix viaggiava su un altro livello. E Jeff era come se ti dicesse: «Certo, ho sentito quei tizi e sono grandi, ma guarda quel che so fare io».

Per me, è iniziato tutto con Truth, nel 1968. Ero troppo giovane per gli Yardbirds. Avevo 14 anni, facevo le superiori e ho cominciato a suonare in una band con dei tizi di un anno o due più grandi di me che mi hanno fatto conoscere quei musicisti, e in particolare Jeff Beck. La prima volta che ho ascoltato Going Down ho pensato che la sua fosse la versione definitiva. Pensavo non fosse possibile fare di meglio, specialmente per il modo in cui Jeff entra ed esce a bomba. Che strana maniera di suonare un blues. E che bellissimo modo per non copiare gli altri musicisti. Era brillante e diverso.

Col passare degli anni, non ha fatto che migliorare. Non intendo dire che ha affinato la tecnica, ma che ha aggiunto tanto altro al bagaglio di cose che poteva fare con la chitarra. Dal punto di vista tecnico, quel che faceva con la Stratocaster era molto interessante. Hendrix, in un certo senso, ha reinventato le possibilità di una Stratocaster e Beck ha fatto lo stesso. Si è concentrato molto sul suonare con le dita, utilizzando lo strumento per accompagnare il cantante in modo quasi melodico e con i riff fusi alla ritmica. Jimi cantava, per cui aveva un approccio leggermente diverso, ma era evidente che cercavano di fare cose simili con la Strat.

Beck ha continuato a crescere. Se penso a Guitar Shop del 1989, è un esempio perfetto di disco che ha colpito il pubblico esattamente come avevano fatto Blow by Blow o Wired. Allargava i propri orizzonti suonando con gente nuova, scrivendo, buttandosi sempre in qualche novità a livello tecnico, come ad esempio l’uso degli armonici. Così facendo esprimeva la sua personalità: non andava dietro alle mode, tirava fuori cose sue. Andava oltre la tecnica.

La cosa che più mi piaceva era la sua vena melodica. Adoro i chitarristi folli e rumorosi, mi piace l’atteggiamento sbruffone tipico del rock’n’roll, ma se non c’è melodia, non mi interessa. Se è solo sfoggio di tecnica, mi chiamo fuori. Jeff sapeva essere meravigliosamente melodico e allo stesso tempo folle. Lo sentivi e capivi che era un chitarrista rock’n’roll pericoloso. Lo metteva in chiaro in ogni canzone. L’ho tenuto ben presente a metà degli anni ’80, quando volevo cominciare a registrare qualcosa di divertente a casa. M’incoraggiava sapere che Jeff aveva fatto carriera alla grande facendo solo ed esclusivamente quel che voleva.

Cercava gli strumentisti all’avanguardia adatti per la sua nuova musica. E ha cercato di implementare questa idea nella sua visione di chitarra elettrica provando a combinare in modo nuovo rock, blues e jazz, la fusion di allora. Ma non si è mai perso. Non importava con chi suonasse: restava sempre e comunque Jeff Beck.

Il suo imperativo era «mai annacquare la tua musica». Anzi, fai esattamente il contrario. Ed effettivamente ad ogni disco Jeff era sempre più Jeff. È questo il motivo per cui ogni volta che ne pubblicava uno la gente diceva: che cazzo è ‘sta roba?

Quand’è uscito Blow by Blow suonavo da un annetto con una band disco music. Noi della sezione ritmica eravamo rocker che cercavano di tirare su qualche soldo, eravamo in quel gruppo perché avevamo bisogno di essere pagati regolarmente ogni settimana, ma la nostra passione era il rock. Così quando è uscito l’album di Beck abbiamo iniziato a fare delle jam suonandone qualche pezzo, in particolare Freeway Jam

Era pazzesco il modo in cui Jeff, più avanti, ha usato gli armonici: trovo che Where Were You sia una delle composizioni strumentali per chitarra più notevoli mai registrate. L’ho visto suonarla dal vivo, ti lasciava a bocca aperta. Non la rifaceva mai uguale e ogni volta faceva centro. Era un tour de force di tecnica quasi impossibile.

Nel video dal vivo al Ronnie Scott hai la sensazione di avere di fronte un chitarrista che si sta prendendo il rischio più grande di sempre. Perché non è proprio possibile suonarla accordato. E non tutti gli armonici vengono fuori come nell’album. Eppure lo vedi che ci mette il cuore e l’anima e anche qualche sorriso. Capisci quant’è difficile, realizzi che le sue mani sono come dei tesori. È fantastico. Sembra quasi che la chitarra sia innamorata delle sue mani, che dicono: ok, stiamo al gioco.

Quelle note acute ti tolgono il fiato e ti fanno dimenticare della tecnica. Finché qualcuno ti chiede: «Ma tu la sai suonare?». E tu rispondi: «Sì, ma anche no. L’ho memorizzata e so suonare tutte le note, ma non viene mai come la fa Jeff».

Da Rolling Stone US.

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