Nel caso dovesse servirvi un corso d’aggiornamento rapido sulla forza della musica di Joni Mitchell, fate un salto nel salotto di Gordon Lightfoot. È il 1975 e Mitchell è on the road con la Rolling Thunder Revue di Bob Dylan. Ha in testa un berretto nero e strimpella alla chitarra acustica una canzone che ha appena scritto. Lightfoot e Roger McGuinn sono dietro di lei, Dylan la accompagna alla chitarra. A differenza della volta in cui gli aveva fatto ascoltare Court and Spark, Bob non si è addormentato. Anzi, lui e gli altri sono affascinati da quella canzone che parla di libertà sentimentale e di solitudine on the road. Cose che hanno vissuto tutti sulla propria pelle, ma non sono mai riusciti a descrivere come fa lei in quel pezzo che s’intitola Coyote.
Il video, che è rispuntato fuori grazie al documentario Rolling Thunder Revue di Martin Scorsese, al momento ha tre milioni e mezzo di visualizzazioni su YouTube. «Gesù, cosa ho appena trovato?», si legge in un commento. In un altro: «È ipnotica, non avevo mai sentito parlare di questa canzone prima di 20 minuti fa». Un altro utente è onestissimo: «Da giovane non percepivo il fascino di Joni Mitchell, ora mi sto prendendo a calci per non aver capito prima, nella mia vita, quanto lei è grande».
Discorsi del genere suonano scontati oggi, ma non è sempre stato così. Mitchell ha 80 anni, eppure solo negli ultimi cinque abbiamo iniziato ad apprezzarla come meritava. In questo lasso di tempo ha ricevuto tantissimi premi, dal Kennedy Center Honors al MusiCares Person of the Year fino al Library of Congress’ Gershwin Prize for Popular Song: riconoscimenti tardivi da parte di un mondo che s’affanna per recuperare il tempo perduto. Mentre succedeva, all’inizio, Mitchell (che si sta ancora riprendendo da un aneurisma cerebrale che l’ha colpita 2015) è rimasta lontana dai riflettori. Dopo un timido ritorno di fronte a un pubblico, nel 2019, si è esibita per la prima volta dopo più di 20 anni al Newport Folk Festival del 2022. Un anno dopo, ha fatto il botto al Gorge Amphitheater davanti a più di 25 mila fan. Ha anche rivisitato il suo catalogo con materiali d’archivio, ripercorrendo la sua opera straordinaria e offrendo ai fan della Gen Z e millennial nuove cose da scoprire.
Il suo seguito fra gli artisti più giovani, peraltro, è enorme. Per citare solo alcuni esempi, Olivia Rodrigo recentemente è diventata una fan di Joni durante una vacanza alle Hawaii; Clairo ha chiamato il suo cane Joni; Harry Styles si è imbarcato in una ricerca epica col dulcimer, dopo aver ascoltato lo strumento su Blue; e per gli adolescenti, su Tiktok, Mitchell ha ufficialmente raggiunto il livello di coolness di Stevie Nicks. Tutto questo per dire: benvenuti nella Jonissance.
Magari i vecchi fan di Joni si lamentano per il ritardo ridicolo con cui giunge questo riconoscimento: io l’ho fatto. Non c’è stato un momento preciso, per me, in cui sono stata introdotta alla musica di Mitchell. È sempre stata intorno a me, sia coi CD che tenevamo in auto, sia grazie a mia madre che canticchiava cucinando. Ma in molti ambienti, all’inizio e alla metà degli anni 80, non era considerato figo apprezzare Mitchell. Ricordo quando, a scuola, hli amici mi prendevano in giro perché mi piaceva Blue. «Cos’è questa musica vecchia e perché ha quella voce?». Nel 2023, i ragazzi vogliono tutti sapere come si fa a ottenerla, quella voce.
Anche dopo questa sua rinascita, Mitchell non concede molte interviste, se non a leggende come Elton John, Clive Davis e Cameron Crowe (che sta lavorando a un film su di lei). Proprio Crowe è riuscito a ottenere l’intervista definitiva di Mitchell per Rolling Stone, quando era un giornalista ventiduenne che viveva a San Diego. Quella cover story del 1979 contiene le riflessioni di Mitchell su tutto, dalla sua collaborazione con l’icona del jazz Charles Mingus («Mi chiamava buzzurra, era affascinante») al suo pensiero sul punk («Non è niente di nuovo», diceva con nonchalance, «io ero già una punk negli anni ’50»).
In una delle sue frasi più famose, Mitchell tira una lunga boccata di sigaretta e spiega quanto le sia indifferente piacere o meno a agli altri. «Hai due possibilità», dice. «Puoi rimanere uguale e proteggere la formula che ti ha dato il successo iniziale. Ma finiranno per crocifiggerti, se lo fai. Se cambi, però, ti crocifiggeranno perché sei cambiata. Ma rimanere uguali è noioso. Cambiare è interessante. Quindi, tra le due opzioni, preferisco essere crocifissa per essere cambiata».
L’intervista (che si è tenuta nell’ufficio del suo manager Elliot Roberts, in un salone di parrucchiere e a bordo piscina della sua casa di Bel Air) segna la prima volta che Mitchell parla con Rolling Stone dopo un silenzio durato sette anni. La rottura si era verificata per via di una famigerata “mappa dell’amore”. Pubblicata nel numero del 3 febbraio 1972 della rivista, la Hollywood’s Hot 100 era una mappa di cattivo gusto delle relazioni sentimentali dei musicisti di Los Angeles. Mitchell è rappresentata con un grande stampo di bacio al rossetto e delle frecce che puntano ai nomi di suoi ex come Graham Nash e James Taylor. Potete vedere il grafico qui sotto, preparatevi a rabbrividire.
Ogni volta che il grafico viene tirato in ballo per articoli o libri su Mitchell, si dice che l’abbiamo definita la Regina di El-Lay (gioco di parole tra L.A. e “lay”, fare sesso, ndt). Non è esatto, anche se su Rolling Stone c’erano un sacco di idioti che scrivevano di Mitchell, nei primi tempi. Basta cercare nel numero del 4 febbraio 1971, un anno prima, e la vedrete soprannominata “vecchia dell’anno”. Oppure andate al 12 febbraio 1976, quando Rolling Stone US ha definito The Hissing of Summer Lawns il peggior titolo di un album dell’anno. C’è forse da meravigliarsi se lei non voleva avere a che fare con una rivista che la trattava in modo sprezzante e sessista?
Due decenni dopo, Mitchell ha parlato del trattamento ricevuto in un’intervista del 1996 per Details, dopo aver vinto con Turbulent Indigoun Grammy come miglior album pop. «Sono stata nella lista nera per molto tempo», ha detto. «Per via di un incidente di carattere personale in cui c’entrava uno stronzo che aveva un certo potere a Rolling Stone. Mi è stato riferito che la rivista aveva una politica che imponeva di non dire mai nulla di carino su di me».
Chissà se questa direttiva editoriale è mai esistita. Di sicuro non c’è più da tempo e, in questo periodo, stiamo analizzando quell’ambiente che ha fatto sentire esclusi lei e tanti altri. Una cosa è certa: non c’è un momento migliore di questo per celebrare Mitchell e il suo genio. Brindiamo ad altri 80 anni.
Da Rolling Stone US.