Tuta gold, si chiama così la canzone che Mahmood porterà al Festival di Sanremo 2024. Tutta d’oro. A prescindere da quel che sarà il testo, e siamo certi ci stupirà, questo pezzo è l’ultimo capitolo dell’infinita saga musicale, italiana e non, dedicata a track top e track pants: insomma, la tuta, amatissima tanto dai fashion addict quanto da rapper, trapper e creature simili, che la cantano e feticizzano da ormai svariati anni a questa parte.
Solo nel 2023 abbiamo avuto almeno un paio di hit a tema: Tuta fake di 8blevrai con Don Pero, e Tuta Maphia di Guè featuring Paky. Se per il primo la tuta è per forza di cose un tarocco di noti marchi, ma è comunque “abbinata alla strada” perché quella vera ovviamente è la face, il secondo è tornato sul luogo del delitto: Guè è stato infatti tra i primi artisti italiani, se non il primo in assoluto, a dedicare un pezzo a questo capo d’abbigliamento sportivo, Tuta di felpa nel 2015.
Volando da Milano a Londra, proprio in quel periodo prendeva piede la tracksuit mafia di Skepta, nome di punta della scena grime inglese che aveva deciso di spogliarsi dei marchi colorati americani per vestire esclusivamente tute nere. “Went to the show, sitting front row in the black track suit”, diceva nel suo pezzo del 2015 Shutdown, sbattendo la sua tuta nera in faccia all’alta moda, che di lì a poco avrebbe rimasticato e sputato sul mercato variazioni più o meno fantasiose di quel dress code, rivendendolo a caro prezzo.
La tuta è uniforme di strada: pratica, comoda, ha le tasche profonde in cui ci sta un sacco di roba e, cappuccio in testa, permette di diventare massa indistinta e mimetizzarsi nella notte, soprattutto se nera.
“Tuta black, tuta black, tuta black a-ah”, canta a tal proposito Paky con Shiva nel 2019 in un inno da street gang dal testo piuttosto esplicito. Sulla medesima scia, ma con molte meno visualizzazioni su YouTube, lo stesso anno un altro rapper nostrano, Philip, ha pubblicato un pezzo dal titolo Tuta nera. Potete immaginare il tenore-terrore del brano, storie di vita vissuta da cosiddetti maranza.
Ma la vera via italiana alla tuta rappata, e magari rattoppata, è stata segnata nel 2018 da Speranza con Givova, marca d’abbigliamento sportivo di Scafati, provincia di Salerno: questo brand popolare ed economico, insieme a Zeus e Legea, contrapposto ad altri ben più blasonati brand idolatrati da rapper di vecchia e nuova scuola.
Perché è così che vestono davvero i ragazzi delle piazze: “Trasim nda galera, ca tuta ra Legea, ra Zeus o ra Givova”. Per completezza di outfit, Speranza dà informazioni anche sulle mutande, che sono firmate Uomo: “Fors sbagliamm i modi. Ma nu sbagliamm a moda”.
Stiamo discutendo di Italia, sportswear e rap contemporaneo, abbiamo citato il Regno Unito come origine del tutto, ma considerato che proprio Speranza è italo-francese attraversiamo per un attimo il confine di Ventimiglia e torniamo indietro nel tempo. Uno dei film che ha contribuito a creare l’immaginario della cultura di strada dell’Europa mediterranea a metà degli anni ’90 è proprio francese, La Haine. Presente Thoiry, lo zoo citato nel film e la successiva hit di Quentin40 e Achille Lauro? Ecco. Cosa indossano i protagonisti de L’odio? La tuta, divisa che veste la squadra di chi non ha niente.
Survêt, è così che si dice tuta in francese: è l’abbreviazione di survêtement e ovviamente ci sono decine di canzoni che la citano. Ne scegliamo una su tutte: Survêt du Milan, tuta del Milan, di Jul, il rapper francese più famoso del momento, forse di sempre, che ha collaborato almeno un paio di volte con il nostro Paky. Tutto torna: “T-Max impenna per la via, sogna la bella vita”, per citare un verso featuring tra i due. Tra l’altro, restando sul fronte internazionale della tuta, nell’ultimo disco di Jul ci sono anche altri due italiani, Rhove e Anna.
Veniamo allora a loro due perché pure Rhove ha la sua canzone dedicata: Tuta Lacoste. Mentre Anna, nel nuovo tormentone-onomatopeico insieme a lui, Petit Fou Fou, canta “metto la tuta arancione per la zona” come riferimento al colore bandiera del padrone di casa Rhove, ed è tutto un toc-toc-tom-tom-beep-beep-vroom-vroom: “Al galà non ci vestiamo eleganti”, rappa Anna di Spezia. Chiaro, ci presentiamo in tuta.
Ricordate quando da bambini andavate a giocare in cortile o ai giardinetti? La mamma vi metteva la tuta. E ognuno ha il suo playground, che si tratti di stare sul divano a giocare con la Play o in cameretta a fare le basi. Forse non ricordate invece un tempo in cui se provavate ad andare in tuta in un club, non entravate perché vi rimbalzavano all’ingresso.
E ora che parliamo di ping pong tra strada e locali, certo che non ci siamo dimenticati di chi, pioniere dello streetstyle, ha introdotto la tuta sportiva nella cultura hip hop: la prima ondata di rapper, Run-DMC in testa con le tre strisce Adidas su braccia e gambe. E il motivo principale è piuttosto semplice: ancora una volta, era un capo comodo, perfetto per ballare la breakdance, e il resto è storia.
Se si tratta di stretto rapporto tra abbigliamento sportivo e sottoculture giovanili legate a musica e ballo, viene subito in mente la scena gabber con uno dei suoi elementi caratteristici: la tuta di marca Australian, quella con il logo a forma di Canguro.
E forse non saltavano come canguri, ma comunque cantavano e ballavano Blur, Oasis e compagnia brit-poppeggiante con i loro track top sportivi, ereditati fondamentalmente dalla passione calcistica che accomuna anche i loro predecessori mod e casual, quest’ultima sottocultura degli stadi anni ’80 con la fissa per le migliori tute italiane, Tacchini e Fila in testa.
Dicevamo poco più su di Skepta in prima fila a una sfilata in tuta nera e l’industria della moda che ciclicamente ripesca elementi stilistici della strada per rivenderli a caro prezzo: solo per citare un caso, cercate su YouTube il video promozionale della campagna di Gucci dell’autunno 2017 che rilanciava un look ispirato al Northern Soul degli anni ’70, non mancano chiaramente pregiatissime tute rétro indossate da ballerini intenti a fare spaccate, capriole e calci volanti (sulle mosse da arti marziali, peraltro, pensiamo subito alla tuta gialla di Bruce Lee resa super-pop da Uma Thurman in Kill Bill).
Oppure c’è tutta la produzione della designer britannica Wales Bonner, che per i suoi vestiti riprende tratti stilistici distintivi della cultura giamaicana di cui è discendente: ancora una volta, sport e musica sono le coordinate seguite ed è tutta una tuta bella, morbida e incredibilmente expensive. Per le reference in maglia e dintorni, date un occhio alle vecchie foto di Bob Marley.
E poi, no che non ce ne siamo scordati, ci sono stati almeno un paio di detonatori dello streetwear di lusso: Kanye West e Virgil Abloh, che hanno fatto della costosa tuta un capo d’abbigliamento aspirazionale. Se un comunissimo vestito della strada diventa qualcosa da desiderare e pagare profumatamente, e riuscire a metterselo addosso significa in qualche modo avercela fatta, be’, concedeteci di usare le parole pronunciate da Johnny Rotten durante l’ultimo concerto dei Sex Pistols: «Avete mai avuto la sensazione di essere stati fregati?».
Per concludere, Sempre in tuta: ci sono ben due canzoni con questo titolo. Una è uscita nel 2020 – quando stavamo davvero perennemente in tuta, condannati in casa dal Covid – ed è firmata da nomi affermati della scena rap italiana, Gianni Bismark & Dani Faiv prodotti da Sick Luke. Un’altra, invece, è del 2023 ed è cantata dal giovanissimo e sconosciuto ai più Samuele Nisi. Per non farci mancare nulla, sullo stesso canale YouTube che ci ha fatto scoprire Nisi ci siamo imbattuti in un altro brano a tema: l’artista è il siciliano Gaetano Cordaro e il pezzo, pubblicato quest’anno, si chiama Tute di Armani.
Al di là dell’altalenante qualità delle singole canzoni, della goffaggine di alcuni videoclip e dell’effettiva street credibility dei cantanti passati in rassegna, quel che colpisce è questa sorta di memificazione della tuta. Tuta nera, Tuta black. Tuta Nike, Tuta fake. Tuta acetata, Tuta rubata. Tuta grigia e Tuta sold out. Come nei meme, l’immagine resta uguale, cambia il breve testo, il risultato è lo stesso. Fa ridere, ma anche riflettere.
Dal canto nostro, non vediamo l’ora di ascoltare Tuta gold: Mahmood sorprendici. E per goderci il Festival di Sanremo 2024 sappiamo già cosa indossare: una bella tuta di fiori.