Il file di una vecchissima intervista salvata in Word 97 (non commentate) riporta alla luce frasi che lette oggi fanno un po’ effetto. «Mia madre è morta che avevo 16 anni, e da allora ripeto a me stesso e a tutti quelli che incontro che la vita è breve e scappa via, quindi devi vivere e scoprire ogni giorno come una sorpresa». Per questo aveva scritto Tiempo, spiegava in quella chiacchierata del 2001: il pezzo in cui ospitava Jovanotti e Vico C, rapper di Brooklyn, era in definitiva l’allegro memento mori di un ragazzone che era simpatico a tutti, e la cui morte per un tumore è stata accolta ovunque con sincero dispiacere. Anche se i fasti di La flaca, Grita e Depende restano legati a parecchi anni fa, ogni volta che tornava in Italia per fare promozione anche i giornalisti e radiofonici più cinici lo rivedevano con piacere. Per i più giovani magari era (ed è) più difficile collocarlo. E questo era un po’ il nocciolo della questione.
Quando Pau Donés arrivò in Italia, sull’onda del lento ma inesorabile trionfo spagnolo de La flaca (uscita nel 1996 in Spagna, diventata implacabile in Italia nell’estate 1999), la conquistò con discrezione, senza proclami. Sapeva che il suo gruppo Jarabe De Palo (all’epoca si scriveva staccato) sarebbe stato catalogato in quella che veniva chiamata l’ondata latina, con Ricky Martin, Lou Bega e Jennifer Lopez. E pur avendo un dna più rock’n’roll che non playa y calor, non se la menava troppo. «Io sono cresciuto suonando i Rolling Stones nei locali, ma secondo te qualcuno al mondo vuole ascoltare del rock spagnolo? Chiedi ai gruppi italiani come vengono accolti in giro… Se ci va di lusso qualcuno ci accosterà a Santana e Los Lobos. E va benissimo, sarebbe un grandissimo onore». E poi, sommessamente: «Ci abbiamo messo tanto ad arrivare qui. Adesso non dobbiamo tradire noi stessi, ma neanche il pubblico. Sentono qualcosa di buono in noi, proveremo a darglielo senza fare schifo, mi capisci?».
Con La flaca, che a quasi 25 anni dall’uscita vanta oltre 200 milioni di ascolti su Spotify, aveva un rapporto ambivalente, come spesso capita a chi scrive una hit che poi quasi sfugge al suo controllo. «Quando attacchiamo a suonarla in concerto, il primo minuto è faticoso, sono cinque anni che è il nostro biglietto da visita. Però ogni volta io capisco perché piace: si fa strada piano… e non rompe troppo le palle, no?». E lo diceva in italiano: qualcuno sosteneva che lo conoscesse discretamente anche perché la “tremendisima mulata” della canzone, conosciuta a Cuba, si era poi trasferita a Milano. Però gli spiaceva che qualcuno potesse considerare La flaca come un inno alle ragazze magre, e per questo col disco successivo, quello reso famoso da Depende, aveva voluto fare una sua personale campagna contro l’anoressia.
Con Jovanotti, candidato naturale per la versione italiana (Dipende) era scattata subito un’intesa vera. «Lui ha coraggio, mi piacerebbe fare quello che fa lui, fare canzoni che mi piacciono e non sentirmi chiedere se faccio rock o pop o reggae o musica latina. Non è facile». Effettivamente l’impresa era complicata, e peraltro dal punto di vista radiofonico non fu uno svantaggio che l’ondata latina fosse un traino consistente – anche se ancora in parte un fenomeno folkloristico, lontano dalla forza commerciale acquisita poi dal reggaeton. Ma il gusto cantautorale di Donés comunque faceva una certa differenza, in un periodo in cui il mainstream era un pochino meno industriale. E se dopo quasi un quarto di secolo le sue canzoni passano ancora per radio e scivolano facilmente nelle playlist di tutto il mondo, non è solo per nostalgia: è che non suonano terribilmente datate. Cosa che si deve, forse, anche al suo gentile e generoso proposito: quello di – perdonate il latinismo – non rompere le palle a chi ascolta. È una piccola attenzione ma non abbastanza diffusa, se non tra quelli che amano veramente fare musica. E non si discute, Pau Donés era uno di questi.